Scusate, ma io la polemica tra il buon Carlo “Carlin” Petrini, vindice della biodiversità alimentare e del cibo slow e il colosso del cibo fast standardizzato McDonald’s, proprio non riesco (per restare in tema di nutrizione) a digerirla.
O meglio, l’avrei capita in tutt’altro che contesto, ma non in quello di Expo Milano. Non discuto le posizioni, per carità, del resto Petrini fa il suo lavoro, e il Big Mc pure.
L’uno, da duro e puro, porta avanti la sua trentennale crociata ideologica contro la grande industria agroalimentare e l’altro cerca di difendersi come può dalle critiche, anche a costo di spararla un tantino grossa:
«Noi – così hanno detto quelli di McDonald’s – siamo orgogliosi di servire in Expo 6000 pasti giornalieri di qualità» (!!!!!) .
Il problema piuttosto è un altro. Appunto lo scenario della polemica: l’Expo.
A Petrini non va giù che al gran tavolo dell’Esposizione Universale si sia seduta anche la multinazionale a stelle e strisce. Da mesi il gran capo di Slow Food va dicendo che dentro il circo Barnum di Expo, gli era stato promesso che sarebbero entrati i contadini, i produttori agricoli, magari pure i fruttaroli e i verdurai di Campo dè Fiori.
Tutti quei poveri diavoli insomma che continuano testardamente a coltivare i loro ortaggi e a produrre i loro salumi di nicchia e i loro formaggi “sostenibili”, malgrado – in barba a tutte le teorie delle belle anime (slowfoodiane) sulla tutela della biodiversità – le grandi dinamiche globali dell’agroalimentare li taglino fuori ogni giorno di più dal mercato.
In soldoni, tutti quei poveracci che rappresentano la clientela, vera e potenziale, di Slow Food la quale, grazie a loro e ai fondi messi a disposizione anche dalle amministrazioni pubbliche, necessari a finanziare “i presidi con la chiocciola” può permettersi di mantenere tutto quell’amba aradam fatto di Saloni del Gusto, collane editoriali, bazar e chi più ne ha più ne metta.
(qui sotto l’accordo siglato tra il Slow Food e la Comunità montana della Val Camonica per la gestione del Parco dell’Adamello)
Petrini insomma, dentro Expo avrebbe voluto loro, non certo McDonald’s, vivaddio!, la multinazionale del junk-food che vende maxi-panini e mega-cocacole a pochi spiccioli e che nella sua storia ha prodotto più ciccioni che hamburger.
Giusto, giustissimo, dal punto di vista del nostro gastronomo, tanto più che il tema di Expo, lo sanno tutti, è “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, ovvero la sostenibilità alimentare.
Cosa c’azzeccano or dunque, Mc Donald’s e Coca Cola – s’è inviperito il buon Carlin – con un momento mondiale di riflessione sulla sfida del cibo giusto e sano per “tutti”?
Un discorso che non farebbe nemmeno una grinza, se non fosse che le Esposizioni Universali, per come sono concepite, ideate e vendute dal BIE ai Paesi ospitanti, tutto sono tranne che un simposio globale di asceti e di filantropi.
E l’Expo di Milano, per quanto abbia cercato di darsi una veste didascalica, che peraltro non le appartiene, non è da meno.
Il gran baraccone montato dalle parti di Rho è nient’altro che un megaparco divertimenti, un gigantesco luna park sul modello di Disneyland o – peggio – del parco acquatico Seaworld in Florida, dove il pubblico fa la fila sperando che l’orca assassina che nuota nelle sue piscine, faccia fuori la sua quarta vittima, e non è una battuta.
Un posto insomma dove non c’è regola e non c’è etica, tranne quelle imposte dallo show-business, statuite dal Bie e sottoscritte dagli organizzatori di Expo Milano non ieri, ma parecchio tempo fa.
Per cui ci sembra alquanto strano che il buon Petrini, che al tavolo di Expo ci sta seduto da un po’ e che dunque si presume fosse pienamente a conoscenza dell’accordo formale, non abbia pensato che, rebus sic stantibus, poteva capitargli molto più facilmente di ritrovarsi accanto le multinazionali che gli tolgono il sonno piuttosto che i coltivatori del carciofo spinoso di Menfi o del formaggi di Montèbore.
Perché? Perché, piaccia o no, Expo non è un convegno, né una Bretton Woods dell’alimentazione sostenibile.
E forse, più che McDonald’s o Coca-Cola, in quel contesto lì, è proprio Slow Food che non c’azzecca nulla. Per cui magari bisognava sfilarsi un momento prima. Per poter stare seduto, fuori da Expo, ma dalla parte della ragione.