Muse, Drones: le atmosfere apocalittiche del nuovo album della rock band di Matthew Bellamy.
Li avevamo lasciati con l’album The 2nd Law, il sesto per la precisione, uscito nel 2012 e distribuito dall’etichetta discografica Warner Bros Records, nel quale si fondano insieme l’ormai immancabile rock sinfonico, il dubstep e il synth pop, ma ora li ritroviamo nel concept album basato sulla progressiva disumanizzazione del mondo, rappresentata dall’avvento dei droni.
È Drones, distribuito sempre dalla Warner e, sì, stiamo parlando dei Muse, il gruppo musicale alternative rock britannico che ha conquistato il pubblico con la capacità di trattare temi riguardanti l’apocalisse, ma anche gli Ufo, la guerra, la vita, l’universo e perfino la politica e la religione.
Perché i Muse con questo settimo lavoro vogliono andare oltre. Non si accontentano di descrivere la società e gli eventi che la caratterizzano, non riportano i fatti così come sono, ma ne danno una loro interpretazione attingendo da “altri” temi che non sono i tradizionali, bensì delineati dalle atmosfere della chitarra che produce effetti sull’immaginario collettivo, e che riguardano la fantascienza e l’umanità nella sua accezione negativa, come se fosse rappresentata da quei droni di cui il frontman Matthew Bellamy ha detto a proposito di quest’ultima produzione.
«Per me, i droni sono metaforicamente psicopatici che permettono comportamenti psicopatici senza possibilità di appello ‒ ha spiegato Bellamy ‒ Il mondo è dominato dai droni che utilizzano altri doni per trasformarci tutti in droni. Quest’album analizza il viaggio di un essere umano, della sua perdita di speranza e del senso di abbandono, al suo indottrinamento del sistema per divenire un drone umano, fino all’eventuale defezione da parte dei loro oppressori».
Certo, il concetto è alterato all’ennesima potenza per darne una visione estrema che tuttavia ben si lega al lavoro che la band ha svolto finora, ma che in un certo senso ha un suo riscontro nella società odierna e, soprattutto, negli ultimi episodi di cronaca.
Drones, perciò, non è solo attuale, ma in fondo lascia anche spazio alla riflessione. E allora che cosa c’è di nuovo?
In realtà si discosta poco dalle ultime produzioni, sebbene Bellamy avesse promesso di ritornare alle origini, come aveva dichiarato in un’intervista che risale alla fine del 2013: «Negli ultimi due dischi ci siamo allontanati un po’ da quelli che sono i nostri veri strumenti, concentrandoci su sintetizzatori, batterie elettroniche, effetti vari e via di questo passo. Sento che per il prossimo disco torneremo verso una musica “suonata”, torneremo a usare i nostri soliti strumenti, ossia chitarra, basso e batteria. Sarà un disco in qualche modo più grezzo, di certo più rock».
Le attese dei fan, dunque, sono state vane, ma il gruppo non si preoccupa di esporsi al pubblico.
D’altronde la loro ambizione è molto forte: non vogliono seguire un genere, al contrario ne vogliono creare uno nuovo che per quanto si avvicini al rock è ben altro. È più un musical rock che si eleva a musica classica, con una solida presenza di parti orchestrali e con una chitarra onnipotente che domina la scena, come avviene in Reapers nella quale i riff sono prettamente hard rock.
Da qui i paragoni si sprecano, giacché l’album si avvicina alla consueta ricostruzione scenica svolta dai Pink Floyd, che per primi hanno saputo riscrivere le tendenze musicali gettando le basi del rock progressivo e psichedelico.Non che poi i temi si allontanino di molto da ciò che vorrebbero fare i Muse, tuttavia qualcuno avrebbe dovuto aprire la porta a quelle atmosfere apocalittiche che, forse, in Drones spiccano ulteriormente. Tant’è che, poi, c’è qualcosa che unisce quest’ultimo lavoro con The Division Bell il cui titolo è stato dato da Douglas Adams, traendo le parole da High Hopes con cui i Pink Floyd salutano il loro pubblico in un accenno di speranza.
Benché tutto finisca con il desiderio che qualcosa possa cambiare, Drones invece termina con il brano che ha dato il titolo all’album e che più che incoraggiare l’uomo a guardare al futuro, a quella prospettiva che forse qualcosa possa cambiare nonostante le molte difficoltà, mette in scena un attacco in massa di droni che distruggono tutto ciò che trovano intorno a loro.
E dunque chi è più apocalittico in questo caso? La risposta è ovvia ed è facilmente desumibile dalla struttura dell’album nel quale i Muse hanno creato una sorta di filo conduttore con cui vogliono raccontare la storia di un soldato di una fantomatica terza guerra mondiale che subisce un vero e proprio lavaggio del cervello, tanto da diventare un drone per quanto il suo modo di agire e, soprattutto, di essere è disumanizzato.
Ma allora Drones ha solo messaggi negativi? Non proprio, giacché al suo interno ci sono, comunque, delle sonorità rilassanti come in Revolt, che si distingue per un rock pre-grunge che è caro alla band.
Inoltre, c’è Mercy, con cui il gruppo non vuole proprio saperne di ritornare alle sue origini: il brano si avvicina di più a qualcosa di già ascoltato negli ultimi tempi. La sostanza, infatti, è sempre quella, poiché anche qua si scorge un futuro post-apocalittico come in The 2nd Law – che fa riferimento al romanzo World War Z di Max Brooks. In realtà, anche Drones è nato da un libro molto documentato sui droni, che Matt Bellamy ha letto circa due anni fa, e che tratta della tecnologia che non porta solo a fattori positivi, ma anche negativi come la solitudine generata dall’iperconnessione.
Dead Inside, invece, è la prima traccia e apre così la scena, lasciando presagire quello che accadrà dopo, come ha spiegato lo stesso Bellamy sul sito ufficiale dei Muse: «Questo è dove comincia la storia dell’album, dove il protagonista perde la speranza e diviene “morto dentro”, quindi vulnerabile alle forze oscure introdotte in Psycho e che scaturiscono negli altri pochi brani nell’album, prima di riuscire finalmente a debellarle, ribellandosi e sovrastando queste forze oscure più avanti nella storia».
Anche in questo brano si percepiscono gli effetti prodotti dalla musica orchestrale ed elettronica, che in fondo è un marchio distintivo della band.
Eppure da Dead Inside ad Aftermath ‒ la decima traccia ‒ avviene un cambiamento importante: il protagonista a un certo punto si sente morto dentro, ma quando ascoltando il discorso di John Fitzgerald Kennedy ‒ inserito all’interno dell’album ‒ deciderà di ribellarsi al suo destino per arrivare ad Aftermath, appunto, in cui si parla d’amore.
Se si seguisse, perciò, il filo logico del discorso fatto da Bellamy, in Drones la storia si evolve per lasciare spazio alla musica, a quel rock con cui i Muse vogliono combattere il male del mondo, e lasciarsi a quel senso di liberazione per raggiungere così la pace interiore, come avviene in The Handler. E allora non importa se le promesse sono state vane e se l’obiettivo di partenza era in realtà un altro, ciò che conta è abbandonarsi al piacere di ascoltare quest’ultima creazione. Lunga vita al rock.
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