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Roma Novecento. Il XX secolo nella Città eterna alla Magnani Rocca

Fortunato Depero, Polenta a fuoco duro, 1924-1926.
Fortunato Depero, Polenta a fuoco duro, 1924-1926

Sontuose figure femminili, vibranti nature morte, vedute dell’Urbe e della campagna romana: un centinaio di opere raccontano il Novecento Romano alla Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo. In mostra il collezionismo pubblico e la cultura artistica a Roma nella prima metà del XX secolo, nella complessità dei linguaggi che si sono succeduti, con gli artisti (fra i quali Afro, Balla, Bocchi,  Carena, Casorati, Depero, De Chirico, De Pisis, Discovolo, Donghi, Dottori, Guttuso, Levi, Lionne, Mario Mafai, Manzù, Marini, Benedetta Marinetti, Melli, Savinio, Scipione, Severini, Sironi, Turcato), i movimenti di riferimento e i principali soggetti affrontati.

Giacomo Balla, Il dubbio, 1907-1908. Roma Novecento
Giacomo Balla, Il dubbio, 1907-1908

Il percorso proposto dai curatori dell’esposizione permette una lettura aperta attraverso livelli intrecciati tra loro. Così la visita ai capolavori delle civiche collezioni romane è articolata in una sequenza di sezioni, coerenti al loro interno, in grado di condurre il visitatore dalle opere legate alle ricerche stilistiche tardo-naturaliste e simboliste di inizio Novecento – Sartorio, Mancini, Spadini, Bocchi, De Carolis, Balla – agli esiti più audaci e innovativi del Secondo Futurismo – Depero, Benedetta Marinetti, Prampolini, Tato – per proseguire con la ricca sezione sul valore della tradizione italiana e il dialogo con l’antico – Casorati, De Chirico, Savinio, De Pisis, Severini, Sironi, Carrà – e con quella altrettanto articolata della Scuola Romana – Mafai, Scipione, Afro, Tamburi, Funi; il percorso si conclude con la figurazione e l’astrazione degli anni cinquanta, da Guttuso a Turcato, Capogrossi e Pirandello.

Filippo de Pisis, Natura morta (Pesci e bottiglia), 1925 Roma Novecento
Filippo de Pisis, Natura morta (Pesci e bottiglia), 1925

Proprio il dialogo tra le due collezioni permette anche di porre in rapporto opere di medesimi autori – come Guttuso, De Pisis, Carrà, Severini, Manzù, De Chirico, Mafai, Tamburi – eseguite in tempi e in situazioni diverse, mostrando così alcune tappe fondamentali della ricerca personale di alcuni dei più significativi artisti dell’arte italiana del Novecento.
La mostra propone anche un confronto tra la storia e la vocazione dei due musei. La Galleria d’Arte Moderna di Roma nata nel 1883 e aperta al pubblico nel 1925, rivela una forte intenzione celebrativa dell’Italia post-unitaria e fascista attraverso un programma di acquisizioni guidato dalle autorità civiche al fine di documentare l’ambiente artistico della capitale d’Italia nei suoi molteplici aspetti. La Fondazione Magnani Rocca, istituita nel 1978 e aperta al pubblico nel 1990, originata dal grande amore per l’arte di un singolo collezionista, quale Luigi Magnani, raccoglie le opere da lui scelte per accompagnare i suoi pensieri, le sue riflessioni, il suo esistere.

Benedetta (Cappa Marinetti), Velocità di motoscafo, 1922-1924.
Benedetta (Cappa Marinetti), Velocità di motoscafo, 1922-1924

APPROFONDIMENTO / Movimenti Artistici ROMA 900

Simbolismo, sentimento dannunziano di poesia della natura

Il paesaggio era il genere dove quasi naturalmente venivano a trovare espressione le istanze di quel vasto orientamento culturale europeo che ha nome e identità nel Simbolismo e che costituiva, pur nelle diverse accezioni, la sensibilità comune agli artisti dell’ala culturale più avanzata, e proiettata verso la modernità, verso il Novecento.

Anche le affermazioni di un critico d’arte, giovane ed estemporaneo come Gabriele D’Annunzio, a Roma dal 1891, individuavano, proprio nella pittura dei paesisti, i principi di una nuova estetica.

Gli scenari che Roma offriva nella grandezza dei suoi monumenti e nel fascino della sua storia, presente allo stesso modo nel territorio suburbano e nel tessuto della città storica, attiravano da sempre l’attenzione degli artisti, non solo italiani. Una copiosa produzione di vedute aveva reso abituali nell’immaginario collettivo gli scorci della città, i simboli del suo illustre passato, le anse del suo fiume, le dolci ondulazioni della campagna laziale.

Le occasioni espositive che numerose si svolgevano nel Palazzo delle Esposizioni, in particolare organizzate dalla Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti, non mancavano di presentare tale produzione che riscuoteva, presso il pubblico e la critica, ampio successo.

La moderna pittura di paesaggio era intesa come poesia della natura. Ogni mezzo – dal nuovo strumento della fotografia, a quello più tradizionale del disegno, al bozzetto eseguito all’aperto – era uno stadio da cui partire per una personale rielaborazione dell’artista: il fine era il superamento del vero, la resa di uno stato emotivo nell’osservazione di un paesaggio, in un particolare punto e in una particolare ora del giorno. La nuova visione della realtà già informava, sul finire del secolo precedente, le opere di Giulio Aristide Sartorio e di Adolfo De Carolis, amici e illustratori per D’Annunzio.

La concezione ispirata della natura, luogo eletto per l’individuo ove annullare ogni contraddizione e carpire invece l’essenza della realtà, avrebbe in gran parte sostenuto la declinazione simbolista della cultura romana nei primi decenni del Novecento e sarebbe stata la filosofia de I XXV della Campagna Romana, sodalizio artistico fondato nel 1904 da Enrico Coleman e Onorato Carlandi al quale aderirono molti degli artisti rappresentati in mostra le cui opere, fino alle Biennali romane negli anni venti, continuarono a essere oggetto delle acquisizioni capitoline.

L’atteggiamento decadente, che permeava la cultura della capitale al volgere del nuovo secolo, infondeva al silenzio e alla solitudine degli scenari naturali un vago senso di morte, una vuota assenza che, se pur non toccava il tono dell’angoscia, assumeva quello del rimpianto per la grandezza perduta. Le tinte fredde e le sottili velature accentuavano la staticità della composizione artistica, quel senso böckliniano di morte consono per molti versi alla sensibilità simbolista.

Vittorio Grassi, I civettari (1913)
Vittorio Grassi, I civettari (1913)

Secessione, nel solco di Klimt

Mentre l’Ottocento moriva, e con esso la mitologia positiva della Belle époque, una generazione di giovani artisti si poneva in aperto conflitto con il sistema ufficiale delle esposizioni, contestando i criteri conservatori e selettivi che ne regolavano la partecipazione, rivendicando autonomia di ricerca e libertà di espressione. Come era già avvenuto a Monaco, Berlino e Vienna, gruppi di artisti italiani sceglievano di associarsi nel comune segno della Secessione, sia interpretata, alla lettera, come divisione netta, sia come manifestazione che raccoglieva le forze più innovative intorno a concetti modernisti, ma in cui penetrarono anche elementi di avanguardia. Le esigenze di rinnovamento e di apertura internazionale si polarizzano fra il 1908 e il 1914 a Roma, nelle manifestazioni della Secessione Romana, che denuncia fin dal titolo la volontà di riallacciarsi agli analoghi movimenti di area tedesca e austriaca, al gruppo capeggiato da Klimt, ma si propone anche come una più ampia rassegna delle recenti esperienze artistiche contemporanee europee, comprendendo le esperienze post-impressioniste francesi. A Roma emergono tendenze diverse: dalle interpretazioni elegantemente mondane del Divisionismo di Innocenti, Lionne, Bocchi, alle novità plastiche di Melli. Secessione Romana rappresenta quindi un’avanguardia ‘moderata’, contrapposta all’avanguardia radicale del Futurismo, che intende invece incidere in maniera rivoluzionaria sul linguaggio artistico e sulla realtà sociale e politica. Il primo conflitto mondiale fa ‘tabula rasa’ nei confronti di ogni aspirazione avanguardista, fagocitandone lo slancio vitale.

Amedeo Bocchi, Nel parco, 1919. Roma Novecento
Amedeo Bocchi, Nel parco, 1919

Futurismo e Aeropittura, la nuova spiritualità plastica extraterrestre

Il mito del volo areo, l’ebbrezza della visione dell’alto, la sconfitta della gravità, la trasfigurazione della visione attraverso la velocità, sono elementi costanti della poetica futurista.

“Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi angeli” scrisse Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909 e, ancora più esplicitamente, in Uccidiamo il chiaro di luna, raccontò  che furono i pazzi e i futuristi con “mantelli turchini rapiti nelle pagode” e con “tele color ocra dei velieri” a fabbricare aeroplani. Ne Le Monoplan du Pape (1912), Marinetti immagina di rapire il Papa a bordo di un aereo, nel Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912) vola “seduto sul cilindro della benzina“ e in Zang Tumb Tuuum (1914), il primo poema parolibero, una “carta sincrona dei suoni, rumori, colori, immagini, odori, speranze, voleri, energie e nostalgie” è tracciata da un aviatore sul cielo di Adrianapoli.

La contingenza storica della guerra segnò un’importante cesura con l’immagine del volo quale straordinaria espressione del mito della velocità e del nuovo rapporto tra uomo e macchina; alla volontà ascensionale intesa come impulso prometeico alla “conquista delle stelle” e alla dominazione dell’esistente, subentrò la percezione dell’innalzamento e della visione dell’alto anche come possibilità di salvezza dalle trincee e dalle macerie del conflitto in atto.

Le imprese dei piloti italiani, come Gianni Caproni, così come le azioni eroiche di Francesco Baracca o Gabriele D’Annunzio, che volò su Vienna nel 1918, furono esaltate dagli scritti di Fedele Azari, pittore e aviatore, autore del Manifesto Teatro aereo futurista, e impressionarono molti degli artisti futuristi che vollero sperimentare personalmente il volo aereo. Balla, Dottori, Depero, Tato, Benedetta – per citarne solo alcuni – sorvolarono  città e campagne, riformulando e reinventando tramite la diretta esperienza, non solo visiva ma multisensoriale, la propria percezione del mondo e nuovi “ stati d’animo”.

Solo verso la fine degli anni venti, le diverse esperienze dei singoli artisti futuristi, precursori e nuovi accoliti, si ritrovarono raccolte sotto un’unica bandiera riconosciuta proprio nel Manifesto dell’Aeropittura, dove sono riassunte le effimere prospettive visive offerte dal volo aereo sottolineandone il perenne dinamismo e la continua successione di visioni mutevoli: “Tutte le parti del paesaggio appaiono al pittore: schiacciate, artificiali, provvisorie, appena cadute dal cielo” e “ogni aeropittura contiene il doppio dell’aeroplano e della mano del pittore”. Il risultato è una “nuova spiritualità plastica extraterrestre“ e il totale affrancamento dal “demone della gravità”. Al di là del minimo comune denominatore della visione aerea, lo stesso Marinetti, presentando il movimento nel catalogo della III Quadriennale romana del 1939, dove i futuristi erano presenti con centoquaranta opere, individuò quattro tendenze principali: “Una aeropittura stratosferica cosmica biochimica (…) lontana da ogni verismo”, cui appartiene, tra gli altri, Prampolini; una “essenziale, mistica, ascensionale (…) che riduce i paesaggi visti dall’alto alla loro essenza e spiritualizza aeroplani e volatori fino a ridurli a puri simboli” per i quali indicò Fillia e Diulgheroff; una terza tendenza definita “trasfiguratrice, lirica, spaziale, (…) che armonizza sistematicamente il paesaggio italiano imbevendolo di appassionate velocità aeree, ”cui aderiscono Dottori e Benedetta Marinetti; infine un’espressione aeropittorica “sintetica e documentaria (…) con paesaggi e urbanismi visti dall’alto e in velocità”, tipica di Tato e Ambrosi.

 Antonio Donghi, Donna alla toletta, 1930. Roma Novecento
Antonio Donghi, Donna alla toletta, 1930.

Ritorno all’ordine, si rinnova la tradizione italica

‘Ritorno all’ordine’ è una corrente artistica europea successiva alla prima guerra mondiale, che ripropone la centralità dell’ispirazione tradizionale e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica, rifiutando gli estremismi dell’Avanguardia che aveva dominato fino al 1918, stemperandoli attraverso il filtro di un passato all’insegna della stabilità e dell’ordine. Modernità e classicità rinvigorite dalle reciproche peculiarità erompono così nel lavoro degli artisti. Questo movimento subito abbandonò il Cubismo, facendolo rigettare persino dai suoi primari inventori, Braque e Picasso; stessa sorte toccò al Futurismo, che aveva lodato macchinari, violenza e guerra. In Italia – con artisti come Severini, Sironi, Carrà, De Chirico, Tozzi, Funi, anche Donghi e Casorati – questo cambio di direzione venne riflesso ed incoraggiato da “Valori Plastici”, una rivista di critica artistica fondata nel 1918 a Roma sotto la direzione del pittore e collezionista Mario Broglio. Il termine “ritorno all’ordine”, atto a descrivere il rinnovato interesse per la tradizione, si afferma derivasse da Le Rappel à l’ordre, un libro di saggi di Jean Cocteau pubblicato nel 1926; lungi da anacronismi, è la materializzazione di una volontà artistica consolidata e suffragata anche dal regime fascista e sfociata nel Razionalismo, movimento che promuoveva una purezza geometrica e strutturale, funzionalità fatta forma. Margherita Sarfatti, intellettuale italiana di origine ebraica, ne intuì l’importanza anche politica e, in diretto contatto con Mussolini, suo amante, organizzò una serie di mostre sotto il nome di ‘Novecento italiano’.

Carlo Carrà, Partita di calcio (Sintesi di una partita di calcio), 1934 Roma Novecento
Carlo Carrà, Partita di calcio (Sintesi di una partita di calcio), 1934

Scuola Romana, un Espressionismo barocco

La prima identificazione della Scuola Romana è da attribuirsi a Roberto Longhi, che sottolinea il lavoro di questi artisti in senso espressionista e di rottura nei confronti dei movimenti artistici ufficiali: «Proprio sul confine di quella zona oscura e sconvolta dove un impressionismo decrepito si muta in allucinazione espressionista, in cabala e magia, stanno difatti i paesini sommossi e di virulenza bacillare del Mafai, la cui sovreccitata temperatura potrebbe inscriversi al nome di un Raoul Dufy nostro locale».

Con il loro netto rivolgersi all’Espressionismo europeo, gli artisti della Scuola Romana – fra questi Afro, Capogrossi, Pirandello, Scipione, Mafai e la moglie Antonietta Raphaël – si pongono in contrapposizione formale e poetica alla pittura solida, ordinata e dai richiami formali neoclassici del ‘Ritorno all’ordine’ degli anni venti, che caratterizzava la sensibilità italiana del primo dopoguerra.

La Scuola Romana propone una pittura selvaggia, disordinata, violenta dai toni caldi ocra e bruno rossastri; il rigore formale è soppiantato da una visionarietà espressionista. Scipione dà vita proprio a una sorta di “espressionismo barocco romano”, in cui spesso compaiono scorci decadenti del centro storico barocco di Roma, popolato da prelati e cardinali, visti con occhio allucinato. Mafai, con una pittura tonale dagli accenti caldi, propone un’immagine della Città eterna di struggente intimismo e di sottile denuncia, rappresentando le demolizioni in atto nella Roma fascista, dettate dalla volontà magniloquente e celebrativa del regime.

Renato Guttuso, Tetti di Roma, 1957-1959.
Renato Guttuso, Tetti di Roma, 1957-1959.

Figurazione e astrazione, Guttuso e Turcato.

Alla Galleria di Roma, nel 1944 in una mostra organizzata dal partito comunista “L’arte contro la barbarie” convergono molti degli artisti che in parte fanno riferimento a Lionello Venturi, tra gli altri Mazzacurati, Mafai, Leoncillo, Turcato, Stradone, Guttuso, uniti dal tema della mostra più che da un comune denominatore poetico, che comunque era nell’orbita dell’espressionismo romano. Intorno a Severini e a Prampolini nasce l’associazione Art Club, che propone la prima mostra in ottobre, a Roma, nella Galleria San Marco e che, fin dalla fondazione, riesce a coagulare il legame tra generazioni diverse – vi confluiranno in parte anche i più giovani artisti del Gruppo Arte Sociale – in direzione di una nuova formulazione del linguaggio dell’arte, sempre più lontano dal realismo, ma senza ancora affrontare, almeno in termini lessicali, la questione dell’astrattismo. Questione, questa, che si affaccia prepotentemente nel gennaio 1946 con un articolo su “Domus” a firma di Venturi, che non definisce ancora astrattismo quello italiano, ma usa il termine “astrazione”, una costola del cubismo, sia nell’accezione di neo-cubismo non figurativo sia in quella di ‘formalismo’ di matrice cubista.

Su “Numero”, rivista di Milano, nel febbraio 1946 è pubblicato Oltre Guernica, il Manifesto del realismo, di cui sono estensori Morlotti, Testori e Vedova. Per realismo intendono un forte richiamo alle ragioni della pittura che legano Cézanne a Picasso “ritrovamento dell’origine del colore” e “ritrovamento dell’origine strutturale” dell’opera. A Venezia il 1° ottobre 1946 Birolli, Cassinari, Guttuso, Leoncillo, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Vedova, Viani sottoscrivono il Manifesto della Nuova Secessione artistica, al quale segue la fondazione del Fronte Nuovo delle Arti.

La problematica tra “forma e contenuto” diventa prioritaria. Una questione che attraversa tutta la classe degli artisti impegnati nella costruzione di un linguaggio moderno, nel momento in cui si affaccia il dissidio tra intellettuali e partito comunista proprio sul tema estetico.

Nel 1948 la V Quadriennale romana e la XXIV Biennale di Venezia offrono un panorama ampio delle tendenze e dei movimenti italiani e stranieri. Il raffronto con la straordinaria stagione dell’astrattismo europeo, se pur denota il ritardo dei giovani astrattisti italiani, li immette comunque all’interno di una ricerca di cui in Italia sono tra i protagonisti.

Alcuni artisti migrano da un movimento all’altro, ma soprattutto si sarebbero delineati con decisione gli schieramenti tra astrattismo e realismo quando, su “Rinascita” (novembre 1948) – la rivista del partito comunista diretta da Palmiro Togliatti che tanto amava il realismo di Guttuso – si abbatte, sotto forma di recensione alla mostra di Bologna, Prima mostra nazionale d’arte contemporanea, l’anatema dello stesso partito in cui militavano la maggior parte degli artisti espositori. Togliatti, firma l’articolo con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, non soltanto li accusa di produrre “cose mostruose, scarabocchi”, ma si chiede come proprio a Bologna, la città della cultura per antonomasia, si siano potute trovare “tante brave persone disposte ad avallare con la loro autorità davanti al pubblico questa esposizione di orrori e scemenze come un avvenimento artistico”.

La risposta più incisiva sulle ragioni dell’arte astratta arriva tramite la pittura di Giulio Turcato, che già durante il periodo di Fronte e di Forma1 aveva elaborato una sua propria linea orientata verso il colore di Matisse oltre che verso le forme picassiane.

Pavoni fuori dalla Magnagni Rocca (Foto Luca Zuccala ArtsLife)
Pavoni fuori dalla Magnani Rocca (Foto Luca Zuccala ArtsLife)
Pavoni fuori dalla Magnani Rocca (Foto Luca Zuccala ArtsLife)
Pavoni fuori dalla Magnani Rocca (Foto Luca Zuccala ArtsLife)
Roma 900. Foto ArtsLife
Roma 900. Foto ArtsLife
Adolfo De Carolis, Donna con fiori (Nudo di donna con rose), (1910)
Adolfo De Carolis, Donna con fiori (Nudo di donna con rose), (1910)

INFORMAZIONI UTILI

ROMA 900. De Chirico, Guttuso, Capogrossi, Balla, Casorati, Sironi, Carrà, Mafai, Scipione e gli altri.
Fondazione Magnani Rocca, via Fondazione Magnani Rocca 4, Mamiano di Traversetolo (Parma).
Dal 21 marzo al 5 luglio 2015.

Aperto anche tutti i festivi.

Orario: dal martedì al venerdì continuato 10-18 (la biglietteria chiude alle 17) – sabato, domenica e festivi continuato 10-19 (la biglietteria chiude alle 18). Lunedì chiuso, aperto il lunedì di Pasqua.
Ingresso: € 9,00 valido anche per le raccolte permanenti – € 5,00 per le scuole.
Informazioni e prenotazioni gruppi: tel. 0521 848327 / 848148 Fax 0521 848337 info@magnanirocca.it www.magnanirocca.it Il martedì ore 15.30 e la domenica ore 16, visita alla mostra con guida specializzata; non occorre prenotare, basta presentarsi alla biglietteria; costo € 12,00 (ingresso e guida).
Ristorante e Caffetteria nella corte del museo tel. 0521 848135.
Mostra e Catalogo (Silvana Editoriale) a cura di Maria Catalano, Federica Pirani, Stefano Roffi.

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