Alberto Savinio ci racconta in Nuova Enciclopedia: “Oggi non c’è possibilità di enciclopedia. Oggi non c’è possibilità di sapere tutto. Oggi non c’è possibilità di una scienza circolare, di una scienza conchiusa. Oggi non c’è comune tendenza delle conoscenze (…) conviene rassegnarsi a una crisi perpetua della civiltà.”
Bene, questo allegro pistolotto per introdurvi alla mostra di Giotto appena inaugurata a Palazzo Reale a Milano e, se avete un poco di indulgenza per l’umile scrivente, proverò a spiegarvene il senso.
Se si dismettono le consuete lenti deformanti del modernismo che costringono ad una lettura evoluzionistica delle vicende umane con annesso bagaglio di rivoluzioni, culturali, di costume, politiche, sempre tese al progresso culturale, al progresso sociale… ecco, se si prescinde un attimo da quella roba lì, due sono le cose che colpiscono immediatamente chi guarda: una, la Bellezza, folgorante e assoluta delle opere esposte, senza mediazioni culturali, quelle, se mai, verranno dopo.
La seconda è la atemporalità di quella Bellezza che, teletrasportata attraverso un varco nell’iperspazio, giunge fino a noi intatta, con la stessa dirompente forza e vitalità.
Due evidenze da cui discendono altrettanti corollari che ci salvano dal santino retorico- avanguardista del “ha anticipato tutti, che modernità!…”.
Credo che il linguaggio, certo innovatore, di Giotto più che un balzo in avanti, che sa un po’ di maoismo, al contrario sia frutto di un’immersione nell’antico.
Sì, perché Giotto condensa in sé il meglio della cultura monacense che ha amorevolmente salvato e conservato molto dell’immenso lascito greco-romano, permeandolo di cristianesimo attraverso la Summa di San Tommaso, traghettando così il mondo classico nell’evo nuovo.
E’ questo che apre l’accesso ad un nuovo sguardo sulle antiche vestigia, apparentemente morte e ora tornate a nuova e diversa vita, illuminate dalla grazia divina e plasmate dal genio di Giotto.
La fluidità delle raffigurazioni, l’incanto cromatico-compostivo, l’espressività dei volti e dei corpi, l’intera gamma dei sentimenti, dal tragico all’ironico, dalla beatitudine al dolore, tutto quello che ci fa inneggiare al naturalismo giottesco, non è il prosaico realismo di noi moderni, ma una delle più alte rappresentazioni di Verità dell’intera storia dell’umanità.
La Verità di Giotto e del suo tempo ignora il “nostro” binomio verità-realtà. La realtà per gli antichi è una delle possibili epifanie simboliche del divino che misteriosamente si manifestano. Rappresentazione resa possibile dalla raffigurazione del Cristo incarnato, riflesso e tramite della Divina Immagine del Padre, la cui rassomiglianza ci ricorda la nostra origine e ci indica la salvezza.
Giotto incarna una di quelle eccezionali congiunzioni astrali in cui materia e forma metafisicamente si ricongiungono a ricomporre la divina unità.
Forse è questo che fa dire a Mark Rothko: “In Giotto si comincia a vedere l’inizio della disintegrazione dell’Unità (…) la sua opera è paragonabile a quella di Tommaso d’Aquino che adeguò la Chiesa al nuovo mondo che stava nascendo, per un breve momento evitando anche il caos che doveva seguire”.
… e noi qui dannati in quell’ingrata fase di disordine nel ciclo delle civiltà che la tradizione indù definisce come Kali Yuga.
Giotteschi saluti
L.d.R.