Arriva al Museo Diocesano Tridentino “Mio dolce paese, dove sei? Identità perdute da Rouault ai contemporanei”. L’iniziativa espositiva, organizzata per ricordare il primo conflitto mondiale, intende allargare lo sguardo alle contraddizioni del nostro tempo, alla dimensione del dolore connessa ad altre situazioni di guerra, di discriminazione e violenza, che sfiorano appena il nostro quotidiano.
Il cuore della mostra è rappresentato dal celebre Miserere di Georges Rouault (Parigi, 1871 – 1958), esposto per la prima volta a Trento in quest’occasione. Il ciclo, composto da 58 tavole, fu concepito dall’artista francese negli anni tragici del primo conflitto mondiale, ripreso tra il 1922 e il 1927 ma pubblicato solo nel 1948 da A. Vollard. E’ considerato dalla critica la testimonianza più intensa e significativa di Rouault, ritenuto il più grande pittore religioso del Novecento.
Il Miserere è suddiviso in due parti: la prima, costituita da trentatré tavole, è ispirata al Salmo 50, che nella versione latina inizia con le parole “Miserere mei, Deus”; la seconda, che conta venticinque incisioni, afferisce in maniera più diretta al tema della guerra. Ciascuna tavola è accompagnata da un titolo, parte integrante dell’opera e richiamo costante ai temi cari all’artista: in corrispondenza della tavola XLIV Rouault scrisse Mon doux pays, où êtes-vous? (Mio dolce paese, dove sei?). Un’invocazione che racchiude tutto lo smarrimento, il senso di perdita e di vuoto di chi assiste impotente a tanta distruzione. Una domanda che è stata scelta come titolo dell’intera esposizione, curata da Domenica Primerano, direttrice del Museo Diocesano Tridentino, e da Riccarda Turrina.
La mostra propone al visitatore un costante dialogo tra le incisioni del Miserere – che coprono per intero le pareti delle sale del piano terra – e una significativa selezione di opere di artisti e fotografi nazionali e internazionali: Robert Capa, Valentino Petrelli, Ugo Panella, Alfredo Jaar, Jean Revillard e Simone Turra.
Il percorso espositivo
Il percorso prende avvio da un video che, utilizzando una selezione delle oltre duecento foto d’archivio scattate per documentare i danni arrecati ai luoghi di culto del Trentino, evoca le conseguenze del primo conflitto mondiale nelle vallate della regione. Il visitatore è invitato ad entrare in uno spazio che lo isola dal resto dell’esposizione, così da stabilire una relazione più intima con luoghi forse familiari, resi quasi spettrali dagli effetti devastanti dei bombardamenti. Le chiese, le case, il paesaggio sono avvolti in un silenzio sospeso e pesante; le strade sono deserte e tutto è immobile. Sono paesi svuotati dalla presenza dell’uomo; a volte tuttavia si intravedono le loro sagome che, come ombre, si aggirano tra le rovine di una vita che non potrà più essere uguale a prima. Il filmato, di grande impatto emotivo, è stato realizzato da Stefano Benedetti tramite l’utilizzo di una particolare tecnica di animazione tridimensionale che simula il movimento all’interno delle immagini.
Seguono alcune immagini della Seconda Guerra Mondiale, che fungono da raccordo tra la Grande Guerra e i conflitti del nostro tempo. Si è scelto di inserire in mostra una ristretta selezione di scatti realizzati nel 1943 da Robert Capa quando, al seguito dell’esercito americano, fu chiamato a documentare l’avanzata delle truppe alleate. In mostra viene esposta anche una fotografia di Valentino Petrelli: l’immagine ferma l’intensità di un insperato abbraccio fra un soldato e, probabilmente, la madre. Il taglio e l’inquadratura tanto ravvicinata fanno di questa fotografia il simbolico incontro con l’umanità liberata dal dolore, dall’incertezza, dalle intollerabili privazioni che ogni guerra porta con sé.
Lo sguardo si sposta quindi sui conflitti contemporanei attraverso le immagini del celebre fotoreporter Ugo Panella: le sue istantanee raccontano i luoghi di guerra dai quali si fugge; o il tragico destino dei bambini soldato; ma anche la speranza di una madre che stringe il proprio bambino, guardando dalla finestra di un minareto una città. Concludono l’esposizione alcune immagini di grande attualità che portano all’attenzione del visitatore il dramma dei profughi: l’opera Walking dell’artista cileno Alfredo Jaar e Jungles, un lavoro fotografico di Jean Revillard del 2007. Le immagini di Revillard, che mostrano le capanne dei disperati di Calais, punto strategico di passaggio verso l’Inghilterra, sono state premiate nel 2008 con un World Press Photo, categoria “Problemi Contemporanei”, ed uno Swiss Press, categoria “Estero”.
In mostra sono presenti anche due sculture di Simone Turra, artista trentino che dà vita a figure arcaiche, quasi mitiche, che sembrano ancora fuse alla natura; in dialogo con quelle di Rouault, queste figure raccontano la dimensione tragica del dolore, i silenzi e gli abbandoni che accompagnano il vivere umano.
ESTRATTO del TESTO CRITICO IN CATALOGO Identità perdute da Rouault ai contemporanei
Domenica Primerano e Riccarda Turrina
“Sui luoghi colpiti regna una grigia solitudine di rovine, ogni giorno che scorre leva come un nuovo lembo sull’estensione dei danni e scopre, in tanti angoli fuori di mano, le tracce della violenza, tanto più gravi quanto per lo innanzi meno avvertite. Sono un centinaio le chiese del Trentino che portano incisi a lettere di fuoco gli effetti terribili della guerra, e che giacciono diroccate o in uno straziante abbandono, spogliate di tutto l’arredo e di tutti i ricordi che intere generazioni, nel corso dei secoli, vi avevano raccolto a testimonianza della loro fede e della loro pietà” . Si apre con queste parole l’appello che la sezione trentina dell’Opera di soccorso per le chiese rovinate dalla guerra, costituita nel 1919 e diretta da don Vincenzo Casagrande, rivolse “a tutti i cuori gentili che hanno il coraggio di sacrificare qualcosa” per chiedere un contributo alla ricostruzione.
Tetti distrutti dalle fiamme, avvolti caduti, pavimenti in marmo divelti, lapidi frantumate, tombe scoperchiate e violate, selvagge devastazioni di altari, statue decapitate, arredi rubati o dispersi: questo lo scenario che emerge dalle relazioni redatte nell’immediato dopoguerra e dalle immagini fotografiche commissionate da Casagrande, oggi conservate presso il Museo Diocesano Tridentino. Un quadro che inevitabilmente richiama l’assurda distruzione di luoghi identitari alla quale assistiamo, impotenti, sempre più spesso.
“Le famiglie tornavano a cercare il devastato focolare e lentamente le rovine si ripopolavano”, si legge ancora nelle carte d’archivio. Ad attenderle, un territorio ferito, oltraggiato. Furono circa 70.000 gli sfollati trentini – i Flüchtlinge, come li chiamavano con disprezzo le popolazioni austriache – rientrati nei loro paesi d’origine dopo il forzato esodo, iniziato nel maggio del 1915. Nasce praticamente in questi anni, con il primo conflitto mondiale, il fenomeno dei profughi e dei campi in cui concentrarli. Un’esperienza che segnò tragicamente le generazioni passate, e che oggi si ripete, assumendo dimensioni epocali. Nonostante ciò, osserviamo con distacco le masse di migranti che fuggono dai loro paesi d’origine, come se la cosa non ci riguardasse. O meglio, li guardiamo con crescente fastidio e diffidenza; la loro presenza sconvolge i nostri equilibri, mette a rischio le nostre fragili certezze. Di fronte a tale tragedia, siamo incapaci di esprimere quel sentimento al quale, molto probabilmente, anche gli sfollati della Grande Guerra fecero appello: la compassione.
Ed è proprio il richiamo ad un senso di solidale pietà il filo conduttore che raccorda i molti tasselli di questa mostra, un’iniziativa nata per ricordare il primo conflitto mondiale ma che, volutamente, intende allargare lo sguardo alle contraddizioni del nostro tempo, alla dimensione del dolore connessa ad altre situazioni di guerra, di discriminazione e violenza, che sfiorano appena il nostro quotidiano, ben protetto da rassicuranti abitudini.
Il percorso prende avvio da un video che, utilizzando una selezione delle oltre quattrocento foto d’archivio scattate per documentare i danni arrecati ai luoghi di culto del Trentino, evoca le conseguenze, nella nostra regione, del primo conflitto mondiale. Il visitatore è invitato ad entrare in uno spazio che lo isola dal resto dell’esposizione, così da stabilire una relazione più intima con luoghi forse familiari, resi quasi spettrali dagli effetti devastanti dei bombardamenti. Le chiese, le case, il paesaggio sono avvolti in un silenzio sospeso e pesante; le strade sono deserte e tutto è immobile. Sono paesi svuotati dalla presenza dell’uomo; a volte tuttavia si intravedono le loro sagome che, come ombre, si aggirano tra le rovine di una vita che non potrà più essere uguale a prima. Il loro muoversi con incredulo stupore in mezzo a tanta devastazione sottende una domanda inespressa: quale follia ha prodotto tutto questo?
Quella stessa follia che Georges Rouault descrive con estrema durezza e austera essenzialità nelle cinquantotto tavole del Miserere, la testimonianza più intensa della sua produzione artistica, alla quale egli affida una sofferta meditazione sulla condizione del dolore che non solo la guerra, ma la vita stessa, può generare.
Abbiamo scelto di affrontare il tema della Grande Guerra attraverso le immagini severe, forse sconcertanti e talvolta sgradevoli, di colui che Raïssa Maritain ha definito “il più grande pittore religioso del suo tempo”. Ci pare infatti che questo ciclo, concepito negli anni del primo conflitto mondiale ma sviluppato tra il 1922 e il 1927, mentre si ergevano monumenti enfaticamente retorici alla guerra da poco conclusa, proponga invece una riflessione intensa ma asciutta, e perciò estremamente coinvolgente, sulle molte devastazioni che hanno attraversato e attraverseranno la storia. Rouault esprime con forza, e spesso urla, la sua accusa per l’uomo calpestato, offeso, discriminato; condanna la miseria, la sofferenza, la guerra, che mostrano l’essere umano in tutta la sua fragilità e impotenza. Ma sia le colpe che la miseria umana sono abbracciate da un’infinita pietà, sono illuminate dalla Croce e dalla resurrezione di Cristo. In mezzo a tanta disperazione l’artista riesce a portare una nota di speranza, che permetterà all’uomo di raggiungere una sorta di riscatto da un’esistenza fatta di dolore. In un mondo che allontana la sofferenza, un sentimento con cui non si è più abituati a convivere, o a condividere, Rouault ci ricorda che l’unico varco aperto al dolore è la misericordia. È questa la risposta di speranza che l’artista individua nel Miserere.
A ispirarlo è il salmo 51, un testo che Gianfranco Ravasi indica come “la segreta biografia di anime sensibili, lo specchio della coscienza vivissima e lacerata di uomini come Dostoevskij, l’atto di accusa contro ogni forma di fariseismo ipocrita” . “Riportami la gioia della tua salvezza, sostieni in me uno spirito generoso” recita il Salmo di Davide. Per Rouault la salvezza può giungere solo ricomponendo quella relazione, con Dio e con gli uomini, che violenza, sopraffazione, ingiustizia, ipocrisia hanno infranto. L’artista auspica che l’uomo possa compiere un’autentica rinascita, evocata infatti dalle due immagini, il Mattutino e il Battesimo di Cristo, “poste non a caso nel punto esatto che separa le ventotto tavole iniziali dalle ventotto tavole finali” , più strettamente connesse al tema della guerra. Il sole annuncia il nuovo giorno, così come “la luce vera che illumina ogni uomo“ (Gv 1,9) segna per il battezzato l’inizio di una nuova vita.
L’iter del Miserere giunse faticosamente a conclusione solo nel 1948, con la sua pubblicazione; come osserva Flavia Pesci, al cui saggio in catalogo si rimanda per l’analisi del ciclo, esso costituisce “l’ideale opera di raccordo nella ricezione figurativa della guerra fra i due conflitti mondiali e anche oltre, proiettandosi fino alle tragedie del nostro tempo”. E proprio l’atemporalità di queste cinquantotto tavole ci ha indotto a metterle in dialogo con immagini fotografiche che richiamano altre guerre, più o meno lontane da noi, anche solo geograficamente.
Vicine al nostro vissuto e quasi familiari sono le immagini della Seconda Guerra Mondiale, che fungono da raccordo tra la Grande Guerra e i conflitti del nostro tempo. Si è scelto di inserire in mostra una ristretta selezione di scatti realizzati nel 1943 da Robert Capa quando, al seguito dell’esercito americano, fu chiamato a documentare l’avanzata delle truppe alleate. Nelle sue immagini, come attraverso le sue parole, Capa racconta la povertà e la paura che accompagnano ogni guerra, ma anche l’accoglienza, l’emozione e la speranza. Ritrae i soldati nelle vie di Napoli, mescolati alla gente mentre condividono momenti di spensieratezza; blocca l’istante in cui il carro armato, di cui si percepisce il lento movimento e la straniante dimensione di sorpresa, incontra sulla sua strada uno scorcio dell’Italia del sud dove un uomo sistema il basto al suo asinello; guarda con trasporto al contadino di Troina che, puntando il suo bastone, indica ai soldati americani la direzione presa da un convoglio tedesco; racconta di una fragile bambina dall’aspetto sgualcito che si aggira incredula fra le ombre della guerra: lascia penzolare il piccolo fiasco di vetro e si guarda attorno cercando di capire. Fotografie in bianco e nero, che mostrano come la cecità della guerra colpisca sempre le persone più indifese, immagini di una bellezza inarrivabile, dove una nuova dimensione umana, a poco a poco, riprende forma tra le macerie.
Avvicinarsi il più possibile al soggetto, entrare nel suo sguardo, respirare la paura e la polvere, ma anche sentire le stesse emozioni, vivere la speranza e la bellezza di piccoli frammenti di umana e quotidiana normalità, è ciò che Robert Capa intende comunicare attraverso i suoi reportage di guerra. Così scriveva di lui John Steinbeck: “Capa sapeva che cosa cercare e che cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino. Poteva mostrare l’orrore di un intero popolo attraverso il viso di un bambino” .
Una figura di fotoreporter, dunque, che ha vissuto la propria professione con impegno, con il desiderio di restituire una visone il più possibile vicina alla realtà. Ciò ha significato per Capa affrontare situazioni rischiose, camminare accanto ai soldati, guardare in faccia la morte, entrare nel vivo della battaglia ma anche cogliere gli aspetti più nascosti, quelli lontani dalle azioni di guerra e proprio per questo in grado di testimoniare la complessità degli eventi bellici dove anche ogni vittoria, inevitabilmente, porta con sé l’eco di luoghi devastati e di identità calpestate.
La sua avventura fotografica muove dal desiderio di stabilire un’intesa empatica con i propri soggetti, quell’intesa in grado di accorciare ogni distanza, di cancellare ogni timore perché, com’era solito affermare, l’importante era amare la gente e farglielo capire. Capa utilizzava la fotografia come strumento di indagine; il suo intento era quello di catturare ‘il momento decisivo’, l’istante che avrebbe dato vita a tutto il racconto, quale testimonianza indelebile nel percorso della storia.
In mostra viene esposta anche una fotografia di Tino Petrelli: l’immagine ferma l’intensità di un insperato abbraccio fra un soldato e, probabilmente, la madre. Il taglio e l’inquadratura tanto ravvicinata fanno di questa fotografia il simbolico incontro con l’umanità liberata dal dolore, dall’incertezza, dalle intollerabili privazioni che ogni guerra porta con sé. La donna ha il viso seminascosto, avvolto dal morbido affetto che forse credeva perduto per sempre, nel silenzio della storia, fra le molteplici domande senza risposta. Per i reduci della guerra di Russia, infatti, il rientro a casa non fu sempre così immediato e qualcuno dovette attendere la morte di Stalin prima di poter ricominciare una nuova vita. La travolgente bellezza di questa immagine sta in quel grido di gioia soffocato dall’emozione, in quel dolore intenso che si sfalda al calore di un abbraccio, cancellando ogni angoscia del passato.
Le prime tavole della seconda parte del Miserere, quella più direttamente connessa al tema della guerra, vengono messe in relazione con le immagini scattate da Ugo Panella in Sierra Leone, un paese dell’Africa Occidentale segnato dal marzo 1991 al gennaio 2002 da una lunga e sanguinosa guerra civile. Furono decine di migliaia le vittime di questo conflitto e circa due milioni i profughi. Uno degli esiti più aberranti di questa guerra fu l’impiego in azioni militari di ragazzini tra i 10 e i 15 anni, drogati e costretti con la forza dai ribelli del Revolutionary United Front a diventare protagonisti di episodi estremamente cruenti. I ragazzini che camminano tra edifici bombardati nella regione di Kono, ritratti da Panella, forse sono quegli stessi bambini soldato, marchiati sulla fronte come bestie con la sigla RUF, carnefici e vittime al tempo stesso di una guerra che ne ha devastato l’adolescenza.
L’uomo può essere un animale spietato, ci ricorda Rouault. Homo homini lupus è il titolo della tavola XXXVII del Miserere, nella quale uno scheletro dal ghigno beffardo e un berretto militare sulla testa avanza in un silenzio surreale su un campo desolatamente vuoto cosparso di teschi. Anche nella tavola precedente Rouault raffigura uno scheletro mentre osserva, gelido presagio di morte, l’abbraccio di due commilitoni in partenza per il fronte. Quello che sembra un ragazzino posa un bacio sulla guancia del più anziano, cercando protezione o almeno consolazione per quanto che lo attende. Un abbraccio consolatorio che certo i bambini soldato della Sierra Leone non poterono chiedere né ottenere. “È invece la metafora della guerra – racconta Ugo Panella nell’intervista che chiude il catalogo, alla quale si rimanda – la fotografia che ritrae quattro ragazzi dietro al filo spinato. È volutamente un bianco e nero in controluce, non si dovevano vedere i volti ma solo intuire le sagome, figure di giovani che a causa dei conflitti perdono la loro identità”.
INFORMAZIONI UTILI
Mio dolce paese, dove sei?
Mon doux pays, où êtes-vous?
Identità perdute da Rouault ai contemporanei
Trento, Museo Diocesano Tridentino
19 settembre 2015 – 11 gennaio 2016
MOSTRA A CURA DI Domenica Primerano e Riccarda Turrina
PROGETTO ESPOSITIVO Domenica Primerano
e COORDINAMENTO
PROGETTO Stefano Benedetti
e REALIZZAZIONE VIDEO Computer Grafica, Trento
SEDE ESPOSITIVA Museo Diocesano Tridentino
Palazzo Pretorio
Piazza Duomo, 18 – 38122 Trento
DURATA MOSTRA 19 settembre 2015 – 11 gennaio 2015
ORARI lunedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato: 9.30-12.30 / 14.00-17.30
domenica: 10.00-13.00 / 14.00-18.00
giorni di chiusura
ogni martedì, 1 novembre, 25 dicembre, 1 gennaio, 6 gennaio
BIGLIETTI 3 € ingresso alla sola mostra Mio dolce paese dove sei?
5 € biglietto combinato mostra e Museo Diocesano Tridentino
ingresso gratuito ogni prima domenica del mese
VISITE GUIDATE Da ottobre a gennaio, ogni prima e terza domenica alle 16.00
INFORMAZIONI tel. 0461 234419
info@museodiocesanotridentino.it
www.museodiocesanotridentino.it