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Shylock. Io non sono come voi. In scena al Teatro Litta

Lo spettacolo Shylock. Io non sono come voi  per la regia di Alberto Oliva con Mino Manni, è in scena al Teatro Litta di Milano fino a domenica 1° novembre. Da venerdì 20 sbarcherà a Verona nell’ambito della rassegna “Casa Shakespeare”.

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Uno spettacolo spiazzante che riflette, attraverso le parole di Shylock, l’ebreo usuraio del “Mercante di Venezia”, su tematiche di urgente attualità quali l’odio razziale, la vendetta, l’emigrazione e l’identità religiosa. Il giovane regista milanese Alberto Oliva ritorna in scena, per la terza volta nella sua carriera, nella Sala Cavallerizza del Teatro Litta, in compagnia del fedele interprete Mino Manni, sfruttando appieno le potenzialità scenografiche della suggestiva location. Così con semplici passerelle e giochi di luce trasporta in un vicolo della Serenissima, a ridosso di un canale, l’immaginazione dello spettatore.

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“La decisione di affrontare un testo del genere è giustificata dalla mia esperienza personale” ha spiegato Alberto Oliva, definendo il capolavoro Shakespeariano “una di quelle drammaturgie che ti si incollano addosso”.

E il risultato è proprio quello di uno spettacolo che si incolla addosso alle coscienze degli spettatori milanesi, talvolta giudici non troppo lontani dagli inglesi antisemiti del seicento. E’ una riflessione sul senso di appartenenza ad una comunità (qualsiasi essa sia), sulla diaspora di quei popoli che perpetrano la guerra poiché non esistono nella pace, sulla vendetta fine a sé stessa che rende una libbra di carne umana più preziosa di 3000 ducati d’oro.

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“Tutti gli odi suscitano qualcosa nella parte del corpo di chi li prova e questa parte è la stessa per tutti, amici o nemici che siano. Ma fino a dove un uomo è disposto ad arrivare se colpito in quella parte di corpo?”

Questa la ragione per cui Oliva, parlando di uomini arroccati nelle proprie tradizioni per difendere un’identità negata, inserta furbescamente nel monologo dei passaggi tratti da “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Kolitz Zvi, l’ultimo messaggio scritto da un combattente del ghetto di Varsavia faccia a faccia con la morte. Una scelta capace di caricare il discorso di ulteriore pathos. Pathos che si spezza, però, nel sottofinale quando un salto temporale a colpi di rap palestinese, sposta l’attenzione sui giorni nostri quasi a voler sottolineare un’ovvietà che il pensiero occidentale ha oscurato: tutte le vittime sono anche carnefici e viceversa. Uno spettacolo che confonde e che necessita di una spiegazione. Una mise en scène come una doccia fredda improvvisa capace di risvegliare la sala in modo quasi irritante ma volutamente provocatorio, purché se ne parli.

Cattura

www.teatrolitta.it

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