Giorgio Bonomi, in un recente testo critico, ha scritto “L’osservatore, davanti alle opere fotografiche di Francesco Cabras, deve tenere conto di questo paradosso: l’artista inizia a lavorare con la macchina fotografica come fotografo di viaggi e reporter, oltre che come giornalista e regista, poi continua su questa e altre strade, eppure lui non ha nel profondo delle sue pulsioni a fare arte (la fotografia), questa volontà strumentalmente vincolata, bensì ha la volontà propria dell’artista che realizza opere sempre uniche, anche se seriali. Questa è la sua ispirazione poetica”.
E continua sottolineando che “Cabras appartiene a quella schiera di artisti cui si applica il concetto del filosofo francese Gilles Deleuze che parla di “ripetizione differente”, come per esempio Giorgio Morandi che ha fatto sempre “bottiglie” o Enrico Castellani che ha realizzato continuamente tele bianche con piccole estroflessioni provocate dai chiodi: opere apparentemente uguali ma invece tutte diverse”.
Affermazioni che inducono curiosità. Parole che invitano a conoscere quale possa essere la tensione artistica di questo autore. E così ho incontrato Francesco Cabras, fotografo, regista e cantante dei North Sentinel, per un’intervista. Non è stato facile. L’artista ha un temperamento, al primo impatto timido, vagamente diffidente. Ma, a sorpresa, svela un animo capace di grande generosità comunicativa che non è da tutti.
Quando hai cominciato a fotografare?
Ho iniziato a dieci anni circa, per imitare mio fratello maggiore cui regalarono una piccola Istamatic e spinto anche da mio padre, appassionato fotografo che usava solo una Contax a telemetro senza esposimetro. Per insegnarmi e per capire se davvero mi piaceva fotografare, mio padre usò con gentilezza un metodo di forte impatto, mi diede la sua prima macchina cioè una Kodak a soffietto estraibile senza esposimetro 6X6, un bellissimo oggetto di arredamento d’epoca, impossibile da usare per qualsiasi neofita, soprattutto se di quell’età. Però l’amore che lui aveva per me, per quella macchina e per le basi della fotografia mi insegnarono a usarla, con fatica ma soddisfazione. E fu un’ottima palestra.
Ottenevo risultati inaspettati per la mia età, forse, e i complimenti mi piacevano, erano una fonte di identità credo. A 12 anni vinsi un piccolo concorso fotografico cui si mandavano le opere per posta e gli organizzatori non mi volevano dare il premio quando scoprirono che lo rivendicava un bambino, autore di una Kodachrome metafisica che ritraeva calamite chiodi e biglie colorate, non volevano credere che l’avessi fatta io. Mi sembrò inaudito che potessero ritenerlo impossibile, io ero immerso in de Chirico, Dalì, Magritte e la mia foto mi sembrava sin troppo citazionistica, ai limiti della banalità. Ero molto precoce nei gusti e negli interessi ma non me ne rendevo conto e questo scarto mi ha sempre dato dei problemi. Attenzione, non lo sto dicendo per vanagloria o assenza di senso del ridicolo, se ero precoce per molti aspetti ero anche già vecchio per altri, e per altri ancora non sono mai cresciuto a tutt’oggi, insomma c’è ben poco di cui vantarsi!
E dopo, cos’è accaduto?
Ho continuato facendo le foto alle partite di calcio della mia scuola, le stampavo e le vendevo per avere qualche soldo. Dagli undici ai tredici anni ho passato buona parte del mio tempo in camera oscura, rifugio utilissimo e protettivo per un ragazzo variamente introverso come me. Qualche anno dopo, un episodio nodale fu raggiungere in autostop Londra per vedere un concerto del mio artista di riferimento, Pete Townshend, sulla strada mi fermai a Parigi presso la libreria autenticamente bohémienne Shakespeare&Company, dove finalmente entrai in contatto con tutto ciò che avrei voluto vivere allora. Quel primo breve viaggio, avventuroso e sorprendente mi fece capire che potevo attivare delle risorse di caparbietà e adattamento interessanti.
Alla facoltà di psicologia, dove mi ero iscritto, ho iniziato a collaborare a una rivista universitaria che mi chiedeva di illustrare con le immagini articoli di settore, non era facile rendere temi come la depressione, l’abuso infantile, la trasgressione e a prescindere dall’esservi riuscito è stata un’utile palestra.
Grazie al desiderio di viaggiare e al richiamo dell’esotismo conradiano con tutti i suoi cliché e le sue seduzioni a 21 anni sono andato in India fino alle Isole Andamane, una meta non facilmente raggiungibile al tempo. Al rientro andai letteralmente a bussare a tutti i giornali di Milano, senza appuntamenti ne’ conoscenze di alcun genere, non avevo idea di come si facesse (e ancora non l’ho capito). Saverio Paffumi, redattore dell’Europeo più umano della media, mi commissionò un articolo e da allora iniziai delle collaborazioni.
Avevo intrapreso a lavorare come guida di ‘viaggi avventura’ presso il tour operator ex fricchettone Nouvelles Frontieres e ciò mi consentiva di guadagnare abbastanza per poter vivere un po’ nei paesi di destinazione per produrre materiale.
L’unica altra cosa che mi era sempre riuscita abbastanza bene a scuola era scrivere, dunque proponevo testi e foto. Scrivevo su Avvenimenti, Airone, qualsiasi testata fosse interessata, Playman e Famiglia Cristiana comprese. Anche su alcune riviste di musica rock, un altro sogno che si avverava: come giornalista potevo accedere gratis ai concerti dopo averli visti e fotografati per dieci anni scavalcando e nascondendo la macchina dentro pagnotte di pane svuotate dalla mollica.
A 26 anni dopo un mese di appostamenti e contatti con il partito democratico birmano clandestino riuscii a incontrare e intervistare un altro mio riferimento, Aung San Suu Kyi, un’esclusiva quasi mondiale che uscì su diverse testate. Il rapporto con le redazioni era molto difficile, ero estremamente timido e non sono mai stato in grado di evolvere degli strumenti relazionali efficienti ad agevolare i rapporti professionali. Inoltre le richieste dei giornali erano molto lontane da ciò che avrei voluto fare. Non mi interessava essere vincolato al reportage o al racconto di una storia, mi sembrava una necessità così limitata e infantile: nella mia personalissima presunzione le fotografie dovevano parlare da se’. Per questo, di recente, ho realizzato l’esposizione ‘Scraps’ che raccoglie fotografie scartate dai giornali, ovvero tutto ciò che più mi corrispondeva.
Ad un certo punto sviluppi, e risulta evidente anche dalla tua biografia, la carriera da regista documentario. E la fotografia rispunta sporadicamente.
Intorno ai 27 anni ho iniziato a rendermi conto che essere costantemente in giro era bellissimo ma che mi stava elegantemente impedendo di crescere come persona. Intanto avevo iniziato a far confluire in un’unica attività tutte le mie passioni, cioè la fotografia, il cinema, la musica e la letteratura, e questo si chiama regia. Credo non ci sia lavoro più bello al mondo se riesci a farlo in modo corrispondente alle tue esigenze. Iniziai con un amico musicista e futuro regista, Varo Venturi, cui devo molto. In seguito grazie e insieme all’allora giornalista Mario Balsamo, realizzammo un programma abbastanza ante litteram su Telemontecarlo e sulla Rai che parlava di letteratura con un linguaggio da videoclip. Poi l’incontro cruciale con il regista-attore Alberto Molinari e il colorist e montatore Francesco Struffi confluì nella fondazione della società di produzione Ganga Film con cui ho realizzato, spesso in co-regia con Alberto Molinari, videoclip per alcuni tra i maggiori musicisti italiani (Caparezza, Cammariere, Gazzè, Nada, Giorgia ecc), molti documentari alcuni dei quali di buon successo internazionale, cicli di video arte e speciali televisivi, e più di recente, pubblicità fuori dall’Italia. Interruppi così quasi ogni collaborazione con i giornali. Il mio lavoro da fotografo confluiva quasi tutto nella regia, era un tutt’uno e non avrei potuto scindere i due aspetti.
Con l’avvento del digitale però ho cominciato, ad avere la gestione artistica completa del mio lavoro di fotografo-still; sono nato con la pellicola e la amo ma non ho nessuna forma di nostalgia. Il non essere più schiavo di costi continui e di stampatori tiranni (mi riferisco essenzialmente al colore) ti dona una libertà artistica che non regge il confronto con il passato. Attraverso il recupero del mio archivio ho realizzato ‘Scraps’ cui accennavo prima e da allora ho iniziato a fare fotografie nell’unico modo che avevo sempre sentito, svincolato dalle redazioni.
Qual è oggi il tuo rapporto con la fotografia e come si è trasformato, oltre agli elementi tecnici ed oltre alla possibilità di esprimere le tue pulsioni artistiche come hai già descritto.
Il rapporto con la fotografia è cambiato di pari passo con il mio cambiamento. Credo che ognuno funzioni così. Tutte le informazioni, le persone, le sorgenti di ispirazione che ci toccano e con cui veniamo in contatto hanno un effetto sul modo di esprimerci e di vedere le cose. Il meccanismo rimane lo stesso. Siamo ciò che viviamo, per questo le scuole di fotografia, di cinema o di scrittura possono essere utili solo se non ci si illuda che siano bastanti. Oggi mi sento un po’ più libero e vicino a ciò che mi corrisponde, però quest’obiettivo rimane sempre difficile e lontano. Sento che si avvicina e alle volte posso sfiorarlo ma la coesione è ancora molto vaga. Uno degli aspetti interessanti è capire che questa libertà acquisita possa avere a che fare molto con i vincoli, con la capacità di sfrondare, di eliminare, di individuare un campo più ristretto, in un certo senso con l’accettazione di non essere onnipotenti o meglio, di non dover puntare all’onnipotenza in senso di perfezione, seppure inconsciamente. Ciò che voglio dire è che se ieri avrei voluto essere contemporaneamente Nadar, Franco Fontana, Weegee, McCurry e Man Ray, solo per citarne alcuni, oggi mi basterebbe produrre dei manufatti che abbiano sufficiente dignità e verità emozionale.
C’è posto, in un mondo frammentato e che definisce ruoli, per un artista?
Se intendi per me non lo so, in fin dei conti credo che dipenda essenzialmente da noi e da cosa si intenda per ‘posto’. Un qualche posto c’è altrimenti non sarei ora qui a fare un’intervista pascendomi delle mie risposte e delle tue domande. D’altro canto potrei stare ore a rigurgitare tutta la mia frustrazione, rabbia e disappunto per come funzionano le cose, il clientelismo, le mode, l’assenza di meritocrazia, l’ottusità, la pigrizia e l’ignoranza che pervadono il mondo dell’arte o della fotografia, la superficialità delle scelte dominate dalle pubbliche relazioni piuttosto che dalla qualità. Lascia stare me ma ci sono tanti artisti strepitosi che non emergono e perfetti manichini che monopolizzano il mercato. Poi certo, il bisogno di etichette è sempre dominante e direttamente proporzionale all’incapacità di astrazione. La gente ha bisogno di formule rassicuranti, e mi riferisco anche al pubblico non solo agli addetti ai lavori. Ma continuando così descriverei semplicemente la condizione umana, o almeno quella squisitamente italiana! Dunque tento di non farmi sedurre troppo dalle sirene del piagnisteo e mettere a fuoco un dato fondamentale, cioè che alla fine siamo solo noi responsabili dei nostri risultati, il circo lì fuori è uguale per tutti e soprattutto siamo anche noi stessi il circo, dimenticarsi di questo è molto pericoloso, si rischia la disperazione e l’isolamento.
I critici, o gli addetti ai lavori, come agiscono davanti al tuo operato.
Sono poco visibile anche perché sostanzialmente non sono mai cresciuto nelle dinamiche delle capacità relazionali così cruciali in questo ambito professionale. Mi sento un gentile disadattato, sia nella vita che nel lavoro, e nemmeno sempre gentile, non lo dico in senso negativo ne’ vittimistico, è solo un dato di fatto. Critici o addetti ai lavori reagiscono come sempre mi è capitato in tutta la vita. Quelli con cui avviene una connessione, la connessione è molto forte e biunivoca, potenzialmente creativa, gratificante e oserei dire profonda. C’è. Ma questo è sempre avvenuto con poche persone, poche ma molto buone, e spesso non appartenenti in modo diretto al mondo dell’arte. Penso a Oliviero Beha, uno dei pochi ad aver capito veramente uno dei nostri (mio con Ganga Film) documentari, al punto da inserirlo nel programma d’esame della sua cattedra romana di “Sociologia dei processi culturali e comunicativi” ad Architettura, lo cito espressamente per vanto personale. Era un documentario che parlava di identità, di pregiudizi e di giovinezza, quasi tutta la critica però lo considerò un backstage. Potrei poi fare qualche altro esempio ma non mi sembra il caso altrimenti svelerei la mia attitudine di falsa modestia!
Hai un pubblico che ti segue…
Sparuti ciuffi di fragili sprovveduti, agili pensionati, stalkers di bocca buona. Amici e parenti. I migliori insomma.
Che cos’è la fotografia per Francesco Cabras?
La fotografia è solo uno degli infiniti aspetti dell’espressione umana.
La base della ricerca fotografica di Cabras, ad un’osservazione lenta, schiude nessi e connessioni che ne svelano la plasticità e l’atemporalità. Il tutto animato dalla curiosità pura dell’autore. Atto, questo, che dona delicatezza e poesia agli scatti. L’umano plasma e i segni restano, riconoscibili.
Bellissima intervista, ricca di spunti di riflessione.
Grazie, sia all’intervistatore come anche all’intervistato.