Luisa Pomar è un’artista maiorchina che da anni vive e lavora a Milano. La sua è una ricerca incentrata sull’azione e sul risultato del sovrapporre, accostare e stratificare. Lo scorso 4 novembre era in mostra al The Others Art Fair di Torino. Le abbiamo posto qualche domanda inerente la sua attività artistica.
Ti sei formata tra Palma di Maiorca e Milano e dal 2006 hai deciso di riprendere la ricerca pittorica, dopo esserti dedicata al disegno industriale. Credi che il segno educato che lasci sui tuoi lavori su carta – penso a Variazioni di percorsi (2015) – dipenda da questo?
Certamente. Più che di segno educato, però, parlerei di precisione. Un oggetto prodotto industrialmente deve essere disegnato in tutti i suoi particolari e un errore di appena pochi decimi di millimetro nel disegno tecnico comporta l’aver sprecato ore e ore di lavoro. Allo stesso tempo, la mia iniziale formazione artistica ha influenzato l’attività di design. In particolare, mi riferisco al disegno, vale a dire, alla capacità di percepire le forme e le proporzioni. Ma, come ci sono valori comuni in entrambe le attività, c’è un aspetto diverso fondamentale che vorrei sottolineare. Quando Mario Vargas LLosa riflette sul suo lavoro di saggista e romanziere, parla del prevalere della parte razionale nel saggio, mentre emerge di più quella inconscia nel romanzo. Ecco, penso che lo stesso succeda nello sviluppo progettuale e nel processo artistico, e di conseguenza cerco nel secondo maggiore libertà.
La serie Notebooks 2014 è composta da veri e propri diari all’interno dei quali il tratto simmetrico del pastello si accosta alla lettera. Cosa raccontano di te questi piccoli taccuini?
I diari che compongono la serie Notebook furono realizzati in occasione della mostra alla Casa dei Mori a Venezia. L’obiettivo era di creare un libretto semplice, unico e raffinato, nella grafica e nella fattura, da offrire al pubblico. Questi taccuini richiamano quella precisione di cui parlavamo prima.
La città di Venezia è protagonista dei tuoi Short videos 3 (2014), nei quali sono ripresi elementi ed eventi apparentemente insignificanti della vita quotidiana. Si tratta di inquadrature in cui rivive il tuo punto di vista, il tuo costruire un quadro di insieme a partire dai minimi dettagli. In che modo ti servi del video come complemento della tua arte pittorica?
I tempi in cui faccio le riprese video sono per me momenti spensierati, ludici. Mi diverte cogliere con la camera un evento inatteso o apparentemente insignificante. Per fare questo, devo avere uno sguardo attento, un’attitudine ad afferrare la sorpresa. Mi servo del video come complemento al mio lavoro pittorico: si tratta di un esercizio di allenamento. Vale lo stesso per lo spettatore. Tra l’altro, non a caso, Venezia è protagonista. A Venezia devi camminare, è semplice perdersi, quindi, è più facile fermare lo sguardo e trovarsi in luoghi inaspettati.
Il processo che metti in atto nella realizzazione di un’opera è fatto di ricerca ma specialmente di stratificazione di tonalità, segno e forma. In che modo riesci a cogliere il momento in cui l’opera è veramente compiuta – mi riferisco impudentemente a Estensioni infinite e limitate (2013)?
Il titolo della serie Estensioni infinite e limitate fa riferimento più al concetto di confine che a quello di compimento. Non sono in grado di argomentare quando capisco che un’opera è conclusa, anche se il tema appare esplicitamente in una delle mie ultime serie. Certamente, per una come me, che ha fatto dei concetti di stratificazione, sottrazione e trasformazione, temi centrali del suo lavoro, la domanda è molto pertinente. Nel 2006 quando ho ripreso il lavoro pittorico, ho iniziato a dipingere sopra quelle opere e con quei pastelli che avevo lasciato sedici anni prima nello studio di Palma. Il tempo trascorso era così lungo che l’unico modo per riprendere a dipingere è stato quello di farlo sopra i vecchi lavori, sulle impronte originali. Gradualmente, in me è sorta la necessità e la curiosità di vedere quello che si nascondeva sotto ai vari strati e così ho iniziato a grattare le stesure colorate: alcune di esse le ho coperte con nuovi colori, altre le ho lasciate a vista. Da lì il titolo della serie Qualcosa che sta dietro le cose (1989-2011). Un altro esempio di questa ricerca centrata sul processo di trasformazione è la serie Variazioni di percorsi (2015), di cui parlavamo prima. Ovviamente, queste continue manipolazioni, queste variazioni hanno un finale, altrimenti sarebbe un agire patologico che soffoca.
I collect and compose my pieces one by one 2 (2015) è una serie nella quale ti servi di diversi tasselli per dar vita a un mosaico cromatico. Si tratta di un gioco di alta precisione che però spesso rimanda a quella istanza infantile di creare qualcosa di nuovo a partire da informazioni prestabilite. Quanto di performativo si cela dietro questa operazione?
Senz’altro l’elemento performativo è principale. Raccolgo e compongo miei frammenti uno ad uno indaga sul tema della molteplicità, delle connessioni. Più sono i frammenti, i tasselli a disposizione, più la composizione del mosaico, del quadro è di natura molteplice e aperta. Si tratta di giocare a trovare gli accostamenti a volte molto visibili o analoghi, a volte apparentemente insignificanti o incompatibili fino a formare una composizione non prevista, a volte incompleta. Di nuovo la questione dell’inizio e della fine.
Puoi ritenerti soddisfatta del percorso di ricerca fin qui da te intrapreso?
Sì, sono soddisfatta del mio percorso di ricerca perché è frutto di un lavoro arduo, perché lo ritengo coerente e lo sento vitale.
www.luisapomar.com
<Video I collect and compose my pieces one by one 2 (2015)>