La distribuzione in Italia di Storie di cavalli e uomini è una delle migliori occasioni per cogliere il punto di vista islandese, frutto di un connubio unico – sviluppatosi attraverso paesaggi monumentali e orizzontali (coprotagonisti della pellicola) – fra coraggio (con note alte di follia), candore e un ingegno al limite del creativo, il tutto avvolto da una maglia grezza (come i maglioni di lana che tutti indossano sull’isola) di peculiare humour nero e invernale.Il regista Benedikt Erlingsson (che abbiamo già incontrato fra gli interpreti de Il grande capo di Lars Von Trier) sotto la sicura egida dell’Icelandic Film Centre (le cui produzioni meriterebbero una maggiore attenzione) porta sul grande schermo un affresco, il cui ensemble umano è attraversato (e rappresentato) al trotto o al galoppo da splendidi animali che qui diventano la chiave di volta per comprendere e mutuare le intenzioni degli esseri umani.
In Storie di cavalli e uomini gli animali (persino nella morte) sembrano possedere l’impermanenza dei Cammelli Polari di Giuseppe Genna, seppur domati e vicini agli umani la loro natura è chiaramente distaccata e inafferrabile, il loro sguardo sembra anticipare gli eventi che avverranno. Non è un caso che Benedikt Erlingsson, in ogni storia raccontata nel film, parta dall’occhio di uno dei cavalli, che diventano quasi un Argo Panoptes.
L’occhio, ripreso in primissimo piano, coglie più di un dettaglio che sarà protagonista degli eventi (il filo spinato che accecherà uno dei personaggi, l’amore possessivo di un cavaliere nei confronti della sua giumenta da corsa, il desiderio sessuale, un campo di lava millenario dove sfiorare la morte).
I segmenti di Storie di cavalli e uomini sono ambientati in una valle – dove il numero di funerali è forse un po’ troppo alto per una popolazione già esigua come quella islandese – i cui abitanti si passano a turno i ruoli di protagonisti e osservatori. Ogni storia è punteggiata dal luccichio dei binocoli che proviene dalle altre case. I vicini sono un coro che sornione osserva e commenta gli eventi di turno (a differenza dell’occhio distaccato, quasi sovrannaturale dei cavalli).
Benedikt Erlingsson ha voluto che ognuna di queste storie fosse la rappresentazione peculiare di uno dei tratti del punto di vista islandese. Quella che il sardonico premio Nobel Halldór Laxness definì «gente indipendente» trova in Storie di cavalli e uomini una deliziosa e divertente rappresentazione. Incontriamo allora la fierezza e l’orgoglio patriottico di un diavolaccio che trancia la recinzione costruita da un vicino su un sentiero nazionale, l’intrepido e folle alcolista che per comprare della vodka raggiunge – gettandosi in mare a dorso di un cavallo – la nave russa di passaggio sulla costa, la determinazione della giovane e bellissima cavallerizza svedese (l’unica attrice non professionista) che salva più di una situazione.
Ci sarà spazio anche per il confronto con gli stranieri, quando l’entusiasta viaggiatore messicano Juan Camillo dovrà abbandonare l’idea naïf che aveva dell’isola per confrontarsi con la sopravvivenza e la morte in uno dei frammenti più dolorosi e cupi del film. Infine c’è spazio per l’amore, sensuale, desiderato, salvifico. Una felice declinazione islandese di Orgoglio e Pregiudizio in cui la non più giovane Solveig (Charlotte Bøving) s’innamora dell’impenetrabile Kolbeinn (l’affilato Ingvar Eggert Sigurðsson). Un’urgenza di amore e contatto che trova una rappresentazione aerea e potente nel finale che ha l’aspetto di una fecondazione: con le mandrie di cavalli finalmente riunite in un unico recinto circolare, una festa centripeta in cui tutti i protagonisti si (ri)troveranno e completeranno.