Giovedì 21 gennaio 2016 alle ore 18:30 presso il Casale dei Cedrati in via Aurelia Antica 219, si svolgerà la presentazione del volume CULTURAL ACCOUNTABILITY: una questione di cultura.
L’evento introdotto da Alfonso Casalini (editor in chief at Tafter Journal) moderato da Stefano Monti (Partner at Monti&Taft), ospiterà gli interventi di Emiliano Paoletti (Zetema – Coordinamento organizzativo attività Macro Testaccio), Mamo Giovenco (Direttore Artistico Teatro Quirinetta e Villa Ada Roma incontra il Mondo) e Giovanna Barni (Presidente CoopCulture) affronterà solo in parte la presentazione del libro, da cui si muoverà per poter avviare una conversazione sul ruolo che l’industria culturale e creativa può e deve giocare all’interno dello scenario economico.
La cultura non è indotto. La cultura è un sistema di valori (anche) economici che creano una serie di dinamiche positive all’interno del territorio. Dopo anni di divisione, cultura ed economia hanno trovato un nuovo legame attraverso la retorica degli effetti indiretti, ma è ora di chiarire meglio il concetto. Attraverso gli “effetti indiretti” la cultura si trova privata del proprio potenziale economico, e viene attribuito ad un “evento esterno” ciò che invece è proprio derivante dall’esercizio competente e continuativo delle professioni della cultura.
Ampliare la gamma di indicatori delle imprese culturali e creative permette alla cultura di riappropriarsi degli effetti che produce, e permette alle imprese di comprendere meglio la portata del loro business e il significato del loro agire. Cultural Accountability è una questione di cultura, perché attraverso questo piccolo e semplice libro si offrono gli strumenti perché organizzazioni culturali apprendano a misurare il loro impatto, i loro effetti positivi, e possano così avere un argomento di conversazione aggiuntivo con stakeholder e pubbliche amministrazioni.
La retorica dell’accountability, inoltre, ha legato alla CSR (Responsabilità Sociale di Impresa) un senso di buonismo fuori luogo. Essere Accountable significa essere in grado di prendere decisioni informate e quindi meglio motivare anche i propri errori. CSR significa in fondo, applicare un concetto esteso di monitoraggio e controllo e poter gestire la propria organizzazione nel modo più efficiente possibile.
Questo libro riporta alla realtà: un’impresa, di qualunque tipo, deve pensare alla sopravvivenza e alla crescita. L’accountability è uno strumento per riuscire meglio in questo duplice obiettivo.
La CSR è morta. Viva l’accountability!
di Stefano Monti
La Corporate Social Responsibility (in italiano responsabilità sociale d’impresa) era di moda qualche tempo fa, e in alcuni Paesi lo è ancora. In Italia, a dire il vero, non ha mai avuto un vero e proprio slancio, e non è difficile immaginarne il perché.
Parlare di Responsabilità, in un Paese che notoriamente (dal Governo ai cittadini) cerca di evitare di assumere persino una posizione, non è proprio facile. È vero, ci sono casi eccellenti, ma quelli ci sarebbero stati con o senza la Corporate Social Responsibility: ci saranno sempre rappresentanti di quello spirito “sano” dell’imprenditoria: quella che mira a migliorare le condizioni di vita proprie e di quelle altrui.
La CSR rappresentava (e in alcuni casi rappresenta) qualcosa in più: rappresenta un modo attraverso il quale il sistema economico si integra all’interno della vita quotidiana del sistema sociale, un tentativo di coniugare all’interno del sistema economico consolidato quei nuovi approcci basati su principi di equità e di condivisione.
Ma, come quasi sempre accade, non si può imporre dall’alto (e dall’altro) un modello di comportamento: soprattutto quando non è coerente con la struttura culturale di un gruppo sociale. E soprattutto quando lo si fa attraverso regolamenti, disciplinari, consigli che a partire dall’Unione Europea scendono giù fino ad arrivare alle imprese.
Parlando con l’amministratore delegato di una grande impresa d’eccellenza italiana ho capito il motivo di tale ritrosia: così come è stata strutturata e comunicata la CSR induce a credere ad un aumento dei costi di gestione, una ulteriore spesa per quelle imprese che dovrebbero commissionare all’esterno (alle solite Deloitte e KPMG) la redazione di un bilancio sociale che poi soltanto in pochi nella nostra Italia dallo scarso livello di attenzione e dall’alto livello di polemica avrebbero letto.
E allora la domanda che rappresenta il nodo centrale di tutta questa storia: perché un imprenditore privato dovrebbe sostenere dei costi in termini economici e di tempo per produrre un report che poi in pochi leggerebbero?
Ma soprattutto, non è un controsenso che per realizzare un bilancio sociale un’impresa debba, di fatto, spendere delle risorse che (molto) probabilmente erano destinate a migliorare le condizioni di vita dei suoi stakeholder? Mi rivolgo al lettore: se lei avesse disponibilità di €100 per aiutare qualcuno, darebbe €100 a quel qualcuno o gliene darebbe 60€ perché poi €40 servono a pagare un consulente che certifichi che lei sta facendo del bene? Sono curioso di conoscere la risposta.
Differente è invece un principio che è alla base della Corporate Social Responsibility e che ritengo sia destinato ad aumentare la propria influenza: il principio di accountability.
È un termine che non trova una giusta traduzione in italiano: accountability può essere interpretato come quel processo (personale, imprenditoriale e sociale) attraverso il quale chi commette un’azione è in grado di dimostrare le proprie ragioni.
Essere accountable vuol dire, in soldoni, essere in grado di rivendicare le proprie azioni, essere in grado di motivarle, perché quelle azioni sono state il frutto di decisioni prese sulla base di quante più informazioni disponibili. Perché allora l’accountability è destinata a sopravvivere alla CSR?
Perché ha una funzionalità diversa per l’impresa. Perché è utile soprattutto all’impresa. Può anche non essere comunicata, può anche essere tenuta nel cassetto dei dirigenti, ma ha degli effetti positivi elevatissimi.
Prendiamo ad esempio il caso delle industrie culturali e creative, e siccome questo comparto indica un po’ di tutto, prendiamo una società che opera nel mondo delle manifestazioni culturali. Allo stato attuale, quella società è in grado di fornire esclusivamente informazioni interne: quanti eventi ha organizzato, qual è stato l’afflusso, quanto ha speso, e quanto ha perso o guadagnato all’interno di un dato lasso di tempo.
In tutto ciò manca qualcosa. Anzi manca tutto. Tutti sostengono che le economie culturali e creative hanno impatti positivi sul sistema economico nel suo complesso. Dove sono? Quali sono? In quali bilanci vengono inseriti? Chi se ne prende i meriti?
Sempre allo stato attuale, i fattori considerati esterni (esternalità) vengono semplicemente presi come dati all’interno dell’economia privata, ma vengono in qualche modo contabilizzati all’interno del settore pubblico. Statistiche, report, indici: è il settore pubblico che allo stato attuale rivendica l’aumento dei visitatori dei musei, il miglioramento delle condizioni culturali della zona.
Il paradosso è che chi produce cultura si trova tra le mani a poter rivendicare le stesse cose che può rivendicare un produttore di bulloni. In uno scenario di economie sempre più spinte verso modelli di produzione condivisi, non può reggere ancora a lungo un sistema di rendicontazione nato in un mondo in cui lo Stato si occupava paternalisticamente di ciò che è buono per i cittadini e in cui gli imprenditori erano quelli delle industrie del ferro, dell’acciaio.
L’accountability allora diventa l’unico strumento in grado di rendere interni quei processi economici che adesso vengono considerati esterni all’attività economica dell’impresa. È un modo per riappropriarsi di ciò che è stato tolto. È un modo per poter rivendicare con indicatori precisi: io produco cultura, io produco benessere.