Room arriva al cinema, una fiaba nera e commovente con Brie Larson, miglior attrice protagonista agli Oscar 2016.
Room di Lenny Abrahamson (Frank) è arrivato nei cinema italiani questo fine settimana, forte della vittoria di Brie Larson ai premi Oscar 2016 nella categoria Miglior Attrice Protagonista e di un corposo strascico di riconoscimenti (tra cui due Independent Spirit Awards) ottenuti sin dalla sua prima uscita al Telluride Film Festival in Colorado.
Room è la riduzione cinematografica del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio (Mondadori) della canadese Emma Donoghue, anche autrice della sceneggiatura del film. Sebbene l’autrice abbia dichiarato che il suo romanzo non fa riferimento a un particolare fatto di cronaca, possiamo ritrovare nel suo lavoro alcuni aspetti e dettagli dell’orribile caso Fritzl che negli anni ’90 scosse l’opinione pubblica europea e mondiale. Il dente cariato di Joy, riferimento ai denti persi da Elisabeth durante i suoi ventiquattro anni passati nel bunker costruito dal padre e soprattutto il personaggio di Jack che richiama il più piccolo dei figli avuti da Elisabeth nel bunker: Felix.Room è il frutto del lavoro concertato della sceneggiatrice Emma Donoghue, del regista Lenny Abrahamson e dei due attori protagonisti Brie Larson e Jacob Tremblay. Dobbiamo alla scrittrice canadese la levità della fiaba che permea Room. Un immaginario usato da Joy per dare a suo figlio Jack una chiave interpretativa degli eventi serena e accettabile. Un insieme di simboli e rituali segna la vita del bambino, una narrazione ripetuta da Joy ogni giorno per nascondere a Jack l’orrore della vita in segregazione e per impostare un’esistenza quanto più possibile normale.
>> Jack crescerà come il Piccolo Principe di Saint-Exupéry: convinto che «Stanza» sia il suo intero mondo e che storie e immagini da altri pianeti, persi in «Cosmo», giungano a lui attraverso la televisione. Come il coniglietto di Goodnight Moon di Margaret Wise Brown, Jack chiama per nome, descrive come fossero compagni di vita e saluta ogni giorno, gli oggetti presenti nella stanza, dal lavandino alla lampada passando per lo strambo serpente di uova costruito insieme alla madre. Joy, fornirà poi al figlio i semi della comprensione attraverso dei racconti: dal Conte di Montecristo ad Alice nel paese delle meraviglie, passando per la filastrocca Big Rock Candy Mountain, cantata dalla stessa Brie Larson in uno dei momenti più belli del film.
Sarà poi il regista Lenny Abrahamson a costringere questo immaginario nell’angusto capanno che “Old Nick” – nome che Joy ha dato al suo carceriere e stupratore, richiamando il nomignolo del demonio di epoca gotica – ha costruito e insonorizzato per la sua prigioniera. In Room lo sguardo della camera di Abrahamson sfiora le pareti macchiate e ricoperte dai disegni di Jack, la ceramica invecchiata della vasca da bagno, il mesto cucinino, la porta con il lucchetto digitale e l’interno dell’armadio in cui Joy ripara Jack dagli sguardi del mefistofelico e paranoico carceriere.
Il regista costruisce un’immagine mentale del capanno, che rimarrà poi fissata, a soffocare la vita di Joy persino dopo la sua liberazione. Se nella seconda parte di Room la camera di Abrahamson percorre gli ampi spazi della casa natale di Joy – spesso vuoti o attraversati da Jack come un piccolo Mowgli nella giungla – è per rendere più vivida quest’immagine mentale, di cui Joy sembrerà rimanere prigioniera.
>> Room non sarebbe la visione magnifica e toccante che è se non fosse per le interpretazioni fuori dal comune di Brie Larson e Jacob Tremblay. Lo sguardo rotondo e segnato di Joy è sufficiente per raccontare i sette anni di prigionia nel capanno, non servono le parole quando la postura annichilita nel letto o tesa nella notte a proteggere Jack dal mostro, le microespressioni del volto, gli scatti ferini o i delicati gesti delle mani che sfiorano le lunghe ciocche di Jack, raccontano già tutto il vissuto di Joy.
Ha poi dell’incredibile assistere alla crescita di Jack grazie alla straordinaria interpretazione del piccolo Jacob Tremblay. A soli dieci anni, l’attore canadese racconta, senza risparmiare alcuna energia, la crescita di Jack, dalla sicurezza fiabesca del capanno, alla fuga picaresca che segnerà la sua maturazione, fino allo stupore e alle prime percezioni di spazio e tempo, in alcune delle sequenze più toccanti del film.
Anche per Jack l’immagine della stanza rimarrà fissata e indelebile, ma assumerà connotati molto diversi rispetto alla madre. Ricostruita attraverso i disegni e i mattoncini Lego, per il bambino è l’ultimo legame con l’infanzia, l’unica mai conosciuta. Un’immagine poi fisicamente smontata prima nel gioco e poi nel reale, durante l’ultima visita al capanno insieme alla madre.La grande forza di Room sta nel raccontare una storia orribile e gli effetti che ha sulle vite dei suoi protagonisti, non attraverso le parole ma attraverso le posture del corpo e le espressioni del viso. Un modo assai delicato di permettere allo spettatore di empatizzare con una realtà fuori dal comune come quella della segregazione e della violenza. Chiude e arricchisce la bellezza di Room il contributo di Joan Allen, forte e bellissima nel ruolo della madre di Joy.