Weekend di Andrew Haigh: una sommessa storia di scoperta nella provincia inglese, la recensione.
Arrivato in Italia col traino di 45 anni, ben oltre la sua prima uscita nel 2011 (al South by Southwest Film Festival, dove vinse il premio assegnato dal pubblico, l’Emerging Visions Audience Award), Weekend, secondo lungometraggio di Andrew Haigh (già assistente al montaggio per Ridley Scott e Harmony Korine), ha acceso il dibattito sulla sua esigua distribuzione e sul giudizio negativo dato dalla CEI sul film.
Scritto e diretto da Haigh con un budget ridotto e in sequenza cronologica, Weekend muove dall’incontro di due ragazzi, Russell –Tom Cullen, il lord Gillingham di Downton Abbey– e Glenn (Chris New), in un locale gay di una Nottingham liminale che ricorda le peregrinazioni dell’aliena di Under the skin. Tra i due nasce un’attrazione che supera l’incontro casuale ma finito il weekend del titolo Glenn dovrà lasciare la città alla volta degli Stati Uniti per seguire un corso d’arte.
Costringendo gli eventi nei pochi giorni del fine settimana Andrew Haigh apre uno spazio franco, una sospensione dalla quotidianità prescritta, à la Prima dell’alba, in cui Russell e Glenn troveranno modo di confrontarsi e descriversi attraverso la chiave di una crescente attrazione.Nonostante Weekend manchi di quel sistema dell’amore che avrebbe dovuto farci saltare sulla poltrona, possiede alcune idee che necessitano rappresentazione, soprattutto in un paese come l’Italia in cui – rileviamo con sorpresa e amarezza – non si riesce a superare un pensiero dominante del tutto medievale, dai tratti bigotti e profondamente razzisti.
>> Il racconto della tenzone fra l’introverso Russell e il cinico Glenn è forse troppo sommesso ma mette in scena quelle forme del rispetto, dell’accettazione e della libertà di amare che non smettono di attanagliare e provocare dolore e sofferenza quando sono a confronto con un razzismo di maniera, le cui opinioni lise e disarmanti sono perpetrate a tutti i livelli, dal bancone del bar al parlamento.
Quel mal di pancia perpetuo di cui parla Russell, protetto dall’abbraccio di Glenn nel primo mattino, l’arretrare sgomento di fronte alle offese omofobe gridate alla finestra, la sua paura persino di baciare un altro ragazzo in pubblico, sono tutte rappresentazioni di uno scudo repressivo che segna di dolore l’esistenza di troppe persone.
Il progetto artistico di Glenn – registrare le opinioni degli uomini con cui è stato a letto dopo il sesso – diventa la chiave attraverso cui Russell può comprendere e finalmente vedere quanto questo scudo che ha costruito per sé sia in realtà uno steccato di repressione autoimposta. Pensiamo al volto scuro di Glenn quando chiede a Russell pensi che parlare di sesso sia osceno?, siamo in cucina, si sta discutendo di progetti futuri ma non possiamo negare che queste parole e l’espressione contrita di Glenn abbiamo un valore programmatico.
>> La forza di Weekend sta nel rappresentare questo percorso non attraverso una struttura innovativa, situazioni estreme o di particolare disagio, ma attraverso lo schiudersi dei due protagonisti l’un verso l’altro nella più quotidiana e meno satura delle situazioni. Siamo con Russell mentre ripensa sul divano alle parole di Glenn e decide trepidante di scrivergli, attraversiamo la strada in sella alla bici all’imperativo di Scream if you want to go faster! – sorridiamo e sappiamo come andrà a finire quando Glenn mette su TC and the Honeybear di John Grant per fare la pace, chi poi non ha mai avuto almeno un’epifania stretto in un abbraccio sotto le lenzuola, mentre fuori dalla finestra albeggia?
Pensiamo allora a Weekend come a un ideale proseguo del lavoro fatto da Simon Shore con Get Real – cui bisogna riconoscere di aver rappresentato nel modo più diretto e naturale possibile il fondamentale rito di passaggio del coming out – a dimostrazione che il lavoro di accettazione, rispetto e rappresentazione del sé nella vita quotidiana non può mai dirsi semplice né tantomeno concluso.