Morto il produttore dei Beatles.
Fu l’artefice della maggior parte dei loro successi. Aveva 90 anni
10.03.2016, sulle pagine de Il Secolo XIX – George Martin era quello alto. Con il nodo Windsor, la cravatta che scendeva come un contrappeso, la camicia immacolata. Gli altri quattro sembravano garzoni di bottega. Era piccini accanto al loro produttore, morto ieri a 90 anni. Martin lasciava che il fumo della sigaretta velasse gli occhi azzurri. I Beatles cercavano di capire dove sarebbero andati a parare con quel signore dai modi educati. Cominciò con un contratto discografico, alla Parlophone nel ’62.
E’ finita dieci anni fa, quando terminò “Love”, la summa beatlesiana trasferita nella Las Vegas del Cirque du Soleil: «Questa è l’ultima volta che lavoro su un disco dei Beatles, ne ho quasi 80 per grazia del Signore».
Una volta l’ho visto entrare in un hotel di Mayfair, gli si avvicina un tipo elegante, parlano, Martin ascolta, poi si schernisce e saluta. Chiedo all’uomo: era George Martin? <Vorrà dire sir…>. Appunto. Il Quinto Beatles nominato dalla regina. Sconcerto: <No, i Beatles li ha proprio inventati lui>. I numeri, a volte, creano imbarazzo. John Lennon ne era seccato. Quando i Beatles si sciolsero, nel ’70, gli chiesero che ruolo avesse avuto il loro produttore. Cosa avesse fatto per loro. E l’altro, inacidito: «Cosa fa adesso da solo?»
Martin, che le aveva viste tutte, che veniva da una famiglia di piccoli artigiani ad Highbury, il padre era carpentiere, e che prima e durante i quattro scugnizzi di Liverpool aveva lavorato con attori brillanti come Peter Ustinov e Peter Sellers, con Judy Garland e Stan Getz, oltre a produrre colonne sonore per James Bond, non ci faceva troppo caso. Aveva un accento melodioso, corretto nella forma, ben costruito come fanno i figli del popolo destinati a più alti incarichi.
Insomma, quei ragazzi generosi e geniali ma senza formazione seria, non potevano impensierirlo. Non sapevano leggere la musica, almeno per diventare una leggenda. Però potevano correre come cavalli bradi: «Datevi una mossa,ediventerete qualcuno» li ammoniva. E i Beatles, non sapremo mai se per ripicca o baciati dal destino, innestarono una marcia così alta da riequilibrare la bilancia dei pagamenti britannica. Oggi l’enfasi di Mc Cartney, <è stato un secondo padre e un gentleman in ogni senso> piuttosto che le parole accorate di Ringo Starr «ci mancherai», distraggono dalla figura unica nel suo genere che sir George interpretava con humour e senso del limite. Qualità che mancava ai Beatles. Intanto, insieme a Quincy Jones e Phil Spector, colleghi americani con ben altre personalità, aveva intuito che un produttore deve scrivere, come si diceva nel ’68 a proposito della critica cinematografica, le parti che mancavano in una canzone. O una commedia musicale. O una soundtrack. Invece di rimestare nel passato convulso dei Quattro, che sprecarono risorse ed energie come i divi hollywoodiani del muto, Martin va paragonato, da un’altezza vertiginosa, a quello che i produttori sono costretti a fare oggi, complice anche una creatività latitante rispetto agli anni Sessanta: trovare, scovare, marchiare i suoni giusti.
Era così bravo da vincere sei Grammy, due Igor Novello, un Brit Award e meritarsi la nomination all’Oscar per “A Hard Day’s Night”, lo spartiacque dei Beatles come oggetto di marketing, visto che musicalmente erano già lanciati. “Love Me Do” non gli piaceva, , ma il passato da osservatore per l’aviazione durante la guerra gli aveva lasciato un radar particolare per il talento. Sembrava un maestro di scuola, con ascendenze upper class. E questo faceva imbestialire i Beatles, almeno all’inizio.
Però le loro canzoni cambiavano strada con un semplice, garbato suggerimento di sir George. Ve lo immaginate mentre dice a Lennon: «In“SheLovesYou”perché non aggiungete “yeah yeah yeah”?». . O trafficare come un sarto fra organi vittoriani, archi da far planare come colombe in “Eleanor Rigby? “Sgt. Pepper’s” gli costò settecento ore a montare e rimontare il suono di un’epoca. E’ stato un servitore del più esclusivo spirito britannico. Quella dedizione che si impara sul campo, anche con star dispettose. Alla fine Lennon si scusò: «Quando sparlavo di te ero strafatto». Sir George si aggiustò la cravatta. Dopotutto, il ragazzo di Highbury aveva imparato un accento e buone maniere. Che gli altri andassero all’inferno.
Per gentile concessione de Il Secolo XIX