The Dressmaker: Kate Winslet nel nuovo film di Jocelyn Moorhouse. La vendetta è un piatto che va servito camp. In sala dal 26 aprile.
Anno 1951. Un bus attraversa i maestosi e minimali paesaggi dell’Outback australiano (la parte più interna e desertica del continente), solo quando ormai è notte, il mezzo fa fermata nella piccola cittadina di Dungatar. A una prima occhiata sembra di essere in un villaggio del far west americano, con l’emporio, il negozio del farmacista e la stazione di polizia. Una splendida figura in cappotto couture scende brandendo una macchina per cucire Singer e dopo aver acceso una sigaretta, si guarda intorno ed esclama «sono tornata, bastardi». Si apre con questa sequenza iconica The Dressmaker, l’ultimo lavoro della cineasta australiana Jocelyn Moorhouse (Istantanee, Gli anni dei ricordi).
Assente dal lavoro registico per quasi vent’anni (a causa dell’impegno con i due figli affetti da autismo), Jocelyn Moorhouse torna con un ampio, divertente e assai ispiratore affresco camp. Come la stessa regista l’ha definito «un Gli Spietati con la macchina da cucire», in cui i toni del giallo e della commedia al veleno illuminano una storia di riscatto femminile ambientata nella più remota delle province dell’interno globo.
Nei panni (anche se definirli tali pare davvero riduttivo) della protagonista Myrtle ‘Tilly’ Dunnage ritroviamo una meravigliosa Kate Winslet. La sua Tilly, sotto l’ironia e una mefistofelica eleganza (dopotutto la città la scacciò quand’era solo una bambina, considerandola un’assassina e una maledetta) nasconde una fragilità e un dolore insoluto che la muoveranno alla ricerca della propria identità, persa nella memoria dell’infanzia. Al fianco di Kate Winslet in The Dressmaker ecco Judy Davis nel ruolo della madre folle (lo è poi davvero?) di Tilly. È lei l’anima della storia, libertaria, sopra le righe, in grado di conoscere e comprendere molto più di quello che dà a vedere. A lei sono affidati alcuni dei momenti più spassosi del film, come quando Tilly la costringerà a fare un bagno dopo decenni o quella volta in cui bisognerà prendere le misure a un Liam Hemsworth in mutande. Completa la gang di Tilly, Hugo Weaving, di nuovo in cross-dressing dai tempi di Priscilla – la regina del deserto, qui nel ruolo di un ufficiale di polizia pronto a riscattarsi (nel modo più camp possibile) da un doloroso errore commesso nei confronti della piccola Myrtle.
The Dressmaker racconta il confronto fra la bigotta e demoniaca comunità di Dungatar – dove spiccano un farmacista gobbo, cattivissimo e in preda a crisi mistiche, una maestra elementare repressa e attratta da uno dei suoi bambini, un mellifluo e spietato politico locale con più di un segreto sotto la giacca – e Tilly da una prospettiva deliziosamente camp. In The Dressmaker ritroviamo tutta la consapevolezza e il riguardo verso l’emotività umana che viene a crearsi in una situazione di oppressione sociale. Ecco che Tilly, nonostante il grande dolore provocatogli dalla comunità di Dungatar prova a liberare alcune delle sue concittadine dal giogo della tipizzazione, in un tripudio di tinte, tessuti preziosi e trame inedite: è così che la sguattera di bottega può diventare una bomba sexy e ambire al matrimonio col rampollo locale o la donna esaurita e tradita dal marito può ritrovarsi diva splendente sul viale del tramonto, pronta a essere fotografata per il giornale locale.
Se Tilly riuscirà a elaborare e in qualche modo ad affrontare e risolvere la terribile tragedia che ha segnato la sua vita, sarà grazie a un originale mix d’ironia, gusto, teatralità e umorismo che Jocelyn Moorhouse, Kate Winslet e Judy Davis, distillano su tutto il suo percorso.
Tilly – diventata una modista dopo l’esilio da Dungatar – sa che l’elemento estetico è fondamentale, una vera e propria arma da usare sulla comunità e che l’ironia per essere efficace deve trovare una forma, per questo proverà a cambiare il volto della bigotta e repressa Dungatar a colpi paillettes, impalpabile seta e dettagli opulenti. Basti pensare alla sequenza in cui l’arrivo di una nuova sarta «perbene» è salutato da una serie di figure femminili che sembrano appena uscite dalla copertina di «VOGUE» e «Harper’s Bazaar» per riversarsi sulla polverosa main street di Dungatar.Quella di Tilly, è una reazione, sempre più radicale, all’esilio e all’anonimato imposto, sarà doloroso ma galvanizzante scoprire che non fa comodo a nessuno tirare fuori l’orribile storia di come da piccola fu cacciata dalla città.
L’eleganza, l’occhio rivoluzionario per la silhouette del corpo e l’umorismo di Tilly vorrebbero essere un solvente morale, la soluzione per sconfiggere lo sdegno e la repressione della provincia nei confronti di chi è diverso – perché povero, perché omosessuale, perché infrange alla luce del sole i bigotti canoni della religione – ma bisognerà fare un passo in più, sempre nel segno del camp.
Sarà infatti nella teatralità – nel segno del Macbeth di Shakespeare, una tragedia che fa i conti con le colpe nascoste – che Tilly riuscirà a chiudere definitivamente i conti con Dungatar. Neanche a dirlo, in un tripudio di morte, lacrime, bellezza e finalmente, riscatto e libertà.