C’è una cosa che tutti gli analisti dei Panama Papers, questa cyberguerra sui santuari del denaro nascosti nei paradisi fiscali, hanno soltanto sfiorato, chissà se coscientemente o no, ed è che questo scandalo ci rivela il volto più pericoloso e più consolidato della nostra società internazionale, che è quello del capitalismo oligarchico, della ricchezza concentrata nelle mani di una esigua minoranza.
Dietro al nome altamente evocativo dello studio Mossack Fonseca, nascosto nello scintillante distretto finanziario di Panama, e a questi 11 milioni e mezzo di documenti con i loro elenchi di nomi roboanti, che comprendono boss della droga e leader politici, amici e familiari di autocrati russi e cinesi, dignitari sauditi, azeri, pakistani, ucraini, il primo ministro islandese, celebrità dello spettacolo e dello sport, oltre a 800 nomi italiani sparati come se fossero un’enormità, dietro a tutto questo, c’è la verità inconfutabile che siamo di fronte a un piccolo gruppo di ricchi che detiene quasi tutta la ricchezza del mondo e che ne fa quello che vuole.
E’ un problema che riguarda non solo i regimi totalitari, ma soprattutto noi. Secondo il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz, nella nostra stessa democrazia l’uno per cento della popolazione si accaparra quasi un quarto dell’intero reddito nazionale, una disuguaglianza di cui anche i ricchi si pentiranno. Per quel che riguarda il patrimonio, poi, quell’1 per cento ne controlla addirittura il 40, cioé quasi la metà. Venticinque anni fa, questi dati erano del 12 per cento sul reddito e del 33 sul patrimonio. Ecco cosa ci dicono i Panama Papers, che mentre la classe media comincia a sparire, l’oligarchia è ancora più ricca.
E’ questo aspetto che dovrebbe spaventarci e che i media sembrano voler trascurare. «Un’economia in cui gran parte dei cittadini stanno peggiorando anno dopo anno a discapito di una ristretta minoranza non è in grado di andare bene nel lungo periodo», sostiene ancora Stiglitz.
La crescente disuguaglianza è l’altra faccia del restringimento di opportunità. Le oligarchie non usano una delle risorse principali su cui si fonda un Paese, qualsiasi Paese, il suo popolo, nel modo più produttivo possibile. Senza contare che le distorsioni di questa diseguaglianza, come quelle che si riferiscono al potere dei monopoli e all’evasione fiscale, minano l’efficienza stessa di qualunque economia moderna, che avrebbe bisogno di un’azione collettiva, di ricchezza diffusa per crescere meglio, di investimenti in infrastrutture, istruzione e teconologia. Mentre dall’Europa all’America, è il tempo solo dei tagli.
Eppure, il premio Nobel Stiglitz ci ha insegnato che «quanto più una società diventa divisa in termini di ricchezza, tanto più i ricchi diventano riluttanti a spendere soldi per i bisogni comuni».
Nascono così i patrimoni fiscali. Che non sono solo a Panama: ben più dei 7600 miliardi di dollari stimati dall’Università di Berkeley sono finiti nei paradisi offshore sparsi nel mondo, vicini e lontani, in un continuo aggiornamento delle mappe che comprende gli esotici Bahrein, Vuanatu, Nauru, ma anche molto più semplicemente il Libano, Singapore, gli Emirati, Hong Kong, persino la Gran Bretagna e gli apparentemente severissimi Usa, balzati dal sesto al terzo posto del Financial Secrecy Index di Tax justice network, dietro Svizzera e Hong Kong, perchè si rifiutano di scambiare dati con l’Ocse. Secondo alcuni osservatori, nel 2015 svariati miliardi di dollari hanno lasciato le Cayman per spostarsi negli Usa.
I Panama Papers sono solo una faccia di questa realtà. In questo capitalismo oligarchico, dove la globalizzazione ha creato un mercato mondiale, sostituendo i costosi lavoratori qualificati con gli economici immigrati del Terzo Mondo, assieme al declino di un sindacato perduto nel suo passato che non capisce più la nuova realtà dell’economia, l’oligarchia dell’1 per cento decide il futuro più sfortunato di tutti gli altri, anche dei ricchi, che prima o poi pagheranno dazio con la scomparsa del ceto medio in grado di garantirgli il benessere necessario.
La ricchezza genera potere che a sua volta genera più ricchezza. E’ una catena chiusa. L’1 per cento al potere, che non paga nessunprezzo per il bilanciamento degli interessi nazionali con le sue risorse, la nozione di equilibro finirà per scomparire, affossando prima i paesi più deboli e poi pure gli altri. In questo modo, con le regole della globalizzazione concepite a esclusivo vantaggio di questa oligarchia, succede di tutto, e non caso si indebolisce la protezione della salute e dell’ambiente, ma si pregiudica anche quello che era il fondamento dei diritti del lavoro, la contrattazione collettiva.
Quell’uno per cento più ricco del mondo, che comprende malavita potenti e vip dispiegati nel pianeta senza una radice comune, determina alla fine anche la perdita del nostro senso di identità e il valore di una comunità. Finiremo per non esistere se non come una massa di miseredati ripiombati nel Medioevo. Pensate all’America, dove stanno ormai scomparendo i self made man, proprio nella patria dell’opportunità per tutti e di tutti quelli che si fanno da soli.
Ma la disuguaglianza distorce anche la politica estera. Perché le carte sono truccate. E’ questo sentimento di ingiustizia che ha dato origine alle rivolte nel Medio Oriente e all’estremismo islamico. I prezzi crescenti dei prodotti alimentari e la disoccupazione giovanile hanno fatto da miccia alle primavere arabe. Ma dopo quel ribellismo disperato, rischiano di prospettarsi ai nostri confini regimi affamati di pane e di odio, sospinti dal Corano più salafita.
E’ un problema che riguarda noi, non quell’uno per cento che è già riparato nei paradisi fiscali, dovunque si trovino, e che ha creato tutto questo. Riguarderà solo noi.