Che posto ha la fotografia nella tua vita
Sul piano per così dire ‘emotivo-spirituale’ la fotografia occupa un posto importante nella mia esistenza. È una presenza costante, un segnale – talvolta flebile, talvolta forte e chiaro – che viaggia sotto traccia durante il corso della giornata, anche quando sono intento a fare cose del tutto sganciate dallo scattare immagini. È per me un importante modo di ‘pensare’ il mondo che mi circonda, uno strumento di cui per ora non riesco a fare a meno. Sul piano più concreto, invece, e cioè su quello più direttamente collegato alla fotografia come pratica quotidiana, devo dire che il posto che questa occupa è cresciuto progressivamente con il passare del tempo. Pur continuando a campare d’altro, da un po’ di anni sono diventate sempre più numerose le occasioni attraverso cui la fotografia ha assunto una valenza professionale: collaborazioni con case editrici, magazine (reportage commissionati) e gallerie mi permettono attualmente di misurarmi anche su terreni che esulano dalla pura ricerca personale, che pure continuo ovviamente a perseguire. Anzi, in molti casi i due aspetti tendono felicemente a sovrapporsi.
Cos’è per Luca Prestia la fotografia
Tante, tantissime cose. Mi capita sempre più spesso di riflettere su questo aspetto, e le risposte che mi do sono molte. Al di là di tutto, credo di poter dire che per me la fotografia sia davvero uno strumento che mi permette di ‘mappare’ il mondo intorno, di interpretarlo, di metabolizzarlo in qualche modo, di appropriarmene. Fotografo da tanti anni ormai e, ciononostante, continuo a sentire lo stesso entusiasmo degli inizi. Un entusiasmo capace di farmi guardare le cose con approccio curioso, non disincantato. Qualunque tipo di immagini io stia producendo (paesaggio, reportage, architettura, editoriali ecc.), mi accorgo che la spinta emotiva nel compiere l’atto del fotografare è sempre la stessa, immutata: in quei frangenti emerge chiaramente la sensazione di maneggiare uno strumento potente. È una sensazione totalizzante e appagante, che spero non perda mai la sua energia originaria.
Che relazione c’è tra il fare fotografia e la fotografia
Personalmente ritengo si tratti di due facce della stessa medaglia, di due aspetti complementari che difficilmente possono essere distinti o, peggio, essere analizzati indipendentemente l’uno dall’altro. Per me fare fotografia significa trasferire sul piano concreto un approccio mentale che deriva necessariamente dalla fotografia intesa nel suo significato più ampio, e cioè come campo della conoscenza frutto dello stratificarsi di pratiche e di saperi che ne hanno caratterizzato l’evoluzione storica. Non mi sto ovviamente riferendo agli aspetti tecnico-operativi, dei quali poco mi interessa in questo discorso, quanto piuttosto a quelli di riflessione teorica, di elaborazione concettuale che hanno contribuito a plasmare le vicende e a causare le molte trasformazioni di questa forma espressiva la cui storia è meno lunga rispetto a quella di altre. Sono profondamente convinto che un fotografo sia – prima di tutto – un intellettuale e che, in quanto tale, debba avere un approccio il più possibile consapevole e articolato non solo nei confronti della mera pratica del fare fotografia, ma anche, e a maggior ragione, verso la fotografia considerata nella sua totalità e complessità. Detto ciò, ovviamente la realtà quotidiana è un’altra cosa; si può ‘fare fotografia’ con il solo e unico scopo di fare fotografia (un lavoro come un altro, insomma), ma, pur con tutto il rispetto, non è questo il mio punto di vista.
L’approccio che più si avvicina al tuo modo di fare fotografia? Qual è il modo in cui sviluppi le tue ricerche fotografiche e quali sono, con quali contenuti
Ammetto di avere un approccio alla fotografia – e al fare fotografia – non così immediato, in alcuni casi forse addirittura ‘cervellotico’, comunque riflessivo e, credo, consapevole. Penso non si tratti tanto di un atteggiamento circoscritto a quest’ambito, quanto piuttosto di una predisposizione personale dovuta, probabilmente, alla mia formazione e al mestiere che faccio. Questo mi porta quindi a utilizzare un metodo di lavoro che necessita di alcuni, inevitabili passaggi preliminari prima di tradursi nell’atto pratico dello scatto. Quando comincio una nuova ricerca (che non sempre si trasforma poi in un progetto o in una serie fotografica conclusa) cerco innanzitutto di capire ciò che è già stato fatto in quella direzione, da chi, quando e in che modo: e per far questo dedico il periodo iniziale a documentarmi sia attraverso la lettura di testi relativi a quel che sto costruendo (ma le letture spaziano anche in ambiti differenti dalla fotografia, come per esempio la letteratura, l’antropologia, la storia ecc.), sia attraverso la visione dei lavori che sono già stati realizzati. Un metodo forse non così originale, tutt’altro, ma molto efficace. Pur essendo lunga, a tratti faticosa, questa fase preliminare ha il vantaggio di creare un terreno di partenza che considero insostituibile, senza il quale non riuscirei neppure a cominciare. Tutto questo vale soprattutto per i progetti di medio-lungo periodo, quelli insomma più legati alla mia ricerca personale. E quest’ultima da qualche tempo si è concentrata perlopiù sui paesaggi di montagna, luoghi che frequento sia per piacere personale sia per lavoro. Il trascorrere intere giornate in altura (ho la fortuna di vivere a ridosso delle Alpi Marittime) ha fatto nascere in me l’esigenza di trovare una modalità che permettesse di appropriarmi più in profondità di ciò che il mio sguardo abbracciava; in altre parole, ho sentito la necessità di entrare il più possibile in risonanza con quei luoghi, di coglierne l’essenza più intima, meno evidente, al di là della loro sfacciata bellezza paesaggistica. È per queste ragioni che, in tempi differenti, ho cominciato a lavorare a due distinti progetti, conclusi entrambi da poco: Disappeared e Confine di S[s]tato. Due lavori accomunati dal fatto di avere come soggetto le montagne che separano il Piemonte dalla Francia del Sud, ma i cui presupposti di partenza sono differenti. In entrambi i casi, comunque, le idee portanti hanno attinto parecchio al mio background di storico, e questo mi ha senza dubbio aiutato a individuare con più facilità, rispetto ad altre volte, la traccia di quel che volevo fare emergere nel risultato finale.
Raccontami di Disappeared e Confine di S[s]tato
Disappeared è un progetto cominciato a fine 2012 e terminato un paio di anni fa. L’idea era riuscire a restituire fotograficamente una parte della storia che lega le Alpi (in questo caso particolare le Alpi Marittime) all’uomo, il quale per moltissimo tempo ha avuto nei loro confronti un atteggiamento ambivalente sul piano della percezione e dell’elaborazione culturale che ne deriva.
Per secoli – e fino a non molto tempo fa – le Alpi hanno rappresentato per l’uomo una ‘terra incognita’, un vero e proprio mito letterario ricco di riferimenti e di suggestioni legate a leggende le più disparate, in molti casi spaventose e comunque frutto di fantasie che ricorrono pressoché uguali nei racconti popolari di località anche non geograficamente contigue. Si tratta di uno stereotipo sopravvissuto fino a tutto il XVIII secolo, che ha mostrato una solidità difficilmente scalfibile e che ha finito per plasmare profondamente l’orizzonte culturale di generazioni di uomini e donne: non solo di coloro che in montagna effettivamente vivevano, ma anche di quanti le montagne le osservavano da lontano, per esempio dai centri abitati di pianura, considerati dall’opinione comune vere e proprie ‘fortezze’ di civiltà contrapposte a una natura, quella alpina, ritenuta irrimediabilmente selvaggia e spietata. È solo con l’avvento del XIX secolo che le cose cambiano: l’Ottocento è infatti l’epoca della ‘ri-scoperta’ della montagna e di tutto ciò che l’aveva fino a quel momento definita.
La domanda dalla quale sono partito per sviluppare il progetto è stata: cosa resta oggi del fascino esercitato per secoli sull’uomo dalle Alpi? Che significato hanno queste ultime per noi contemporanei? Ho così cominciato a fotografare cime e valloni, boschi e pareti di roccia in diverse stagioni dell’anno e in ore differenti della giornata. In fase realizzativa ho volutamente ‘isolato’ l’elemento naturale per farne il principale soggetto delle immagini, in modo che in esse non comparissero figure umane. Ciò non ha tuttavia significato escludere dall’inquadratura quelle che possono essere definite le ‘tracce’ lasciate dall’uomo in queste terre d’altura. Tracce flebili, ma in ogni caso inequivocabili, di un passaggio o di un’azione esercitata su quei territori soprattutto nel corso degli ultimi decenni. Tracce che se da una parte testimoniano come le Alpi non rappresentino più, oggi, quella ‘terra incognita’ da temere e dalla quale tenersi a debita distanza, dall’altra, proprio in ragione della loro flebilità, danno però all’osservatore la possibilità di immergersi in un ‘silenzio visivo’ fatto di spazi entro i quali provare la sensazione di essere tutt’uno con ciò che ha di fronte; di ‘scomparire’ insomma (da qui il titolo) in un ambiente naturale che continua a esercitare sull’uomo contemporaneo una fascinazione antica e irrazionale.
Confine di S[s]tato, invece, è iniziato e si è concluso nell’estate del 2014, quindi in un tempo piuttosto breve. In questo caso l’intento era di mostrare con le immagini il territorio che unisce il Piemonte meridionale con la regione francese della Provenza-Alpi-Costa Azzurra (un territorio da tempo immemore uniforme dal punto di vista antropologico, storico e linguistico, così come sul piano degli usi e dei costumi) il quale, all’indomani della Seconda guerra mondiale, vive un repentino cambio nella propria vicenda geopolitica. Nell’autunno del 1947, dopo mesi di intense trattative, viene appunto ridisegnato e stabilito definitivamente il confine che separa Italia e Francia in questo piccolo angolo d’Europa: le ‘terre alte’ che costituiscono l’area montana del Colle di Tenda sono da quel momento attraversate da una linea poco più che immaginaria, a tratti flebile e riconoscibile solo grazie a solitari cippi in pietra, tracciata dalla mano dell’uomo su un pezzo di terra dallo spirito selvaggio e incantevole. Camminando su questa parte delle Alpi Marittime si ha la possibilità di spaziare con lo sguardo a 360 gradi senza incontrare ostacoli. Ciò contribuisce a restituire il giusto ordine alle cose e alla natura il ruolo che le spetta, facendo apparire l’azione dell’uomo – con la sua illusoria volontà di controllo e di delimitazione – come un trascurabile incidente di percorso destinato a non durare.
Entrambi i progetti sono stati utili perché hanno contribuito a far emergere e a definire con più consapevolezza nuovi e più approfonditi percorsi della mia ricerca nei confronti del paesaggio di montagna. Ed entrambi hanno trovato buona accoglienza nei circuiti fotografici e su alcune riviste, italiane e straniere. Confine di S[s]tato è diventato un volume fotografico autoprodotto che, lo scorso anno, è stato selezionato (shortlisted, per usare un termine molto in voga) nella fase finale di premiazione dell’Athens Photo Festival.
Ultime esposizioni e prossime in calendario.
La mia ultima mostra risale al giugno del 2015, quando sono stato invitato a esporre proprio le stampe di Confine di S[s]tato in occasione di Cascina Farsetti Art, l’evento annuale organizzato dal Centro Sperimentale di Fotografia Adams di Roma all’interno della struttura che sorge nel Parco di Villa Doria Pamphilj. Inoltre sono stato invitato a presentare Confine di S[s]tato nell’aprile e nell’agosto del 2015 rispettivamente presso l’associazione culturale Prospettivaotto (Roma) e in occasione del festival Les Montagnarts che si tiene da qualche tempo nel paese di Melle (Cuneo).
Ora sto lavorando a più progetti contemporaneamente, uno dei quali (ci saranno ancora le montagne al centro della ricerca) in collaborazione con un acquarellista e un attore. Tutto è ancora alle prime fasi, ed è quindi prematuro parlarne, però, l’intento è di creare una serie di tappe espositive pubbliche in contesti poco usuali. Vedremo.