”Non ho nulla contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”
Se ne è andato un mito. Di lui scrive così l’incipit di Wikipedia:
Muhammad Ali, nato Cassius Marcellus Clay Jr. (Louisville, 17 gennaio 1942 – Phoenix, 3 giugno 2016), è stato un pugile statunitense, tra i maggiori e più apprezzati sportivi della storia.
Aveva vinto l’oro Olimpico ai Giochi di Roma nel 1960, come pugile professionista aveva detenuto il titolo mondiale dei pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978 e per un’ultima breve parentesi ancora nel 1978.
Muhammad Ali era noto anche per la sua conversione all’Islam e per avere rifiutato di combattere nella Guerra del Vietnam. Affetto dalla Sindrome di Parkinson, dopo il suo ritiro dal mondo sportivo Ali si era distinto per le sue azioni umanitarie.
“Io combatto non per me, ma per i miei piccoli fratelli che stanno dormendo per terra, per la gente di colore che non può mangiare”
Che dire d’altro? ArtsLife vuole rendergli omaggio con quest’opera tra le tante che gli aveva dedicato Andy Warhol.
E con una lettura.
Tra tutti, ecco l’articolo a nostro giudizio più bello su Muhammad Alì. E’ apparso questa notte sul sito di Repubblica. Lo ha scritto Luigi Panella. Leggetelo. E’ bellissimo.
<Sarebbe troppo facile affermare che Muhammad Alì ha perso il match più difficile della carriera, quello con il morbo di Parkinson, di cui soffriva da oltre 30 anni e che all’ospedale di Phoenix, dove era stato ricoverato due giorni fa per problemi respiratori, ha posto fine alla sua straordinaria esistenza all’età di 74 anni. Certo, ormai da tanto tempo le sue parole non erano i proiettili lanciati nelle sue grandi battaglie, sul ring e per i diritti civili, ma l’intensità dello sguardo era rimasta sempre la stessa nonostante quel velo calato impietoso. Alì ha battuto anche la malattia, usando le sue idee di libertà e giustizia per danzare come una farfalla e pungere come un’ape.
Quel morbo maledetto irriso già ad Atlanta nel 1996, quando accese la torcia olimpica. Non combatteva da 15 anni, ma forse quella sera fu il round più bello della vita: Parkinson messo alle corde da quel coraggio di mostrarsi malato, dalla fragilità avvolta in un commovente tremolio per un uomo che aveva avuto il mondo in pugno. Da quella notte in Georgia sono passati tanti anni, tra una finta, un jab e una provocazione. Quel Parkinson che non gli impedì l’ultimo saluto al più acerrimo rivale, Joe Frazier, l’uomo che Alì in una leggendaria trilogia di sfide ha sofferto più di tutti. Si stavano tanto antipatici. Frazier lo spedì al tappeto al Madison Square Garden di New York nel 1971, Alì si prese la rivincita due anni dopo. Poi ci fu Manila 1975, il match più brutale di sempre. Alì si divertiva a prendere a pugni un pupezzetto che raffigurava un orango per prendere in giro smokin Joe, sul ring i due quasi si uccisero, lasciarono lì una parte del fisico e dell’anima. Alì vinse, ma riconobbe che se l’avversario non avesse abbandonato alla fine del quattordicesimo round, forse lui stesso non si sarebbe ripresentato sul ring. E poi ancora, in flash che si sovrappongono non tenendo conto del tempo, Alì alle Olimpiadi di Londra: gli occhi nascosti dietro grandi occhiali neri, non più di un cenno di saluto. Eppure è stato l’unico in tutti i Giochi a tenere testa come popolarità ad Elisabetta II che dava spettacolo con l’ultimo 007.
Tante cose che fanno capire come sia riduttivo parlare del Muhammad Alì pugile. Joe Louis o, scendendo dai massimi ai medi, Ray Sugar Robinson forse sono stati complessivamente superiori sul ring, resta comunque questione di opinioni… Ma Ali è stato il più grande sportivo di tutti i tempi. Mai una banalità, ma un continuo bersagliare il perbenismo di una certa America, conservatrice ed incapace di accettare che il campione del mondo dei pesi massimi rifiutasse di ‘onorare’ la patria nella follia del Vietnam. ”Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro…”. Non una frase ad effetto, ma una coraggiosa scelta di coscienza che gli costò il ritiro della licenza e la perdita del titolo negli anni sessanta. Già negro. Come diceva lui, con il nome da negro, Cassius Clay, si rivelò al mondo vincendo la medaglia d’oro a Roma alle Olimpiadi del 1960. Poi si convertì all’Islam e per tutti fu Muhammad Alì. Quando nel 1964 conquistò il titolo mondiale contro Sonny Liston finì subito nell’occhio del ciclone. Quel giovane spaccone così linguacciuto che abbatte un picchiatore brutale, anche nella rivincita ed in un solo round. Era la notte del colpo che nessuno vide e che a distanza di oltre 50 anni fa ancora discutere.
”I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”. Una visione portata fuori dalle sedici corde per riaffermare il principio indissolubile della pace. Alì è stato uno dei pochi personaggi di fronte ai quali è impossibile restare indifferenti. Per chi ama il pugilato è stata la sveglia nel cuore della notte -questioni di fuso orario – per assistere ai suoi capolavori. Ma anche coloro ai quali del pugilato non frega nulla, hanno parlato di lui. Chi lo venerava, chi non vedeva l’ora che qualcuno gli desse una lezione per quel suo modo linguacciuto di indispettire gli avversari.
Perseverante ed ossessivo quando si trattava di raggiungere i propri obbiettivi. ”I want Holmes, I want Holmes”, ripeteva ossessivamente in preparazione al match più impossibile. Sapeva di non potercela fare, ormai trentottenne e debilitato nel fisico, ma voleva il più giovane e forte rivale, quel Larry Holmes che in una straordinaria manifestazione di rispetto e affetto gli risparmiò una punizione pesantissima prima dell’inevitabile conclusione al decimo round. Uomo da show a trecentosessanta gradi. Lo fu anche nel 1974 nello Zaire, allora si chiamava così la Repubblica Democratica del Congo. George Foreman, gigante texano di potenza disumana soggiogato dalla personalità del rivale: campione ridimensionato a sfidante, nero trasformato in amico dei bianchi, indesiderato inquilino dell’Africa Nera.
Foreman arrivò a Kinshasa come un pugile che voleva conservare il proprio titolo, Ali come il liberatore di un intero continente. E tutti lo accolsero da re, la sua macchina solcava le strade polverose, e tra le nuvole i volti dei piccoli neri lanciavano il loro grido di implorazione. ”Ali boma ye”, ”Ali uccidilo”. ”George faceva male, ogni suo colpo qualche danno lo provocava sempre, ti spaccava un muscolo, ti incrinava qualche osso”. Ma lui seppe sopportare stoicamente, per otto round, poi zittì i detrattori, tornando a pungere come un ape e danzare come una farfalla, e per Foreman non ci fu scampo. I più giovani, ma anche chi lo ricorda bene, vadano a vedersi – facilissimo da trovare su internet – il match di Kinshasa. Otto round, non un semplice incontro di pugilato, ma una vera e propria autobiografia di un mito. C’erano proprio George Foreman e Larry Holmes, nell’ultima occasione ufficiale alla
quale Alì era intervenuto, o scorso ottobre nella sua città natale, Louisville nel Kentucky, in occasione del tributo di ‘Sports Illustrated’ nei suoi confronti.
La sua morte è avvenuta quando in Italia era quasi l’alba. Tanti anni fa era il momento di andare al lavoro, o a scuola, o rimettersi a letto dopo aver assistito ai suoi match. Alì è morto, immortale Alì.>
Fonte: Repubblica.it