Per anni abbiamo visto Laura Pausini come una popstar che ci avrebbe ben rappresentato all’estero. Per difendere il tricolore davanti alla grandeur degli stranieri. In parte è vero. Però il concertone di sabato 4 giugno a San Siro, ci racconta un’altra storia. Che magari i più giovani non hanno così chiara, ma possono sempre verificare con la nonna o su YouTube. La Pausini piace perché siamo rimasti legati alla primadonna tv. Per dirne una, Mina. Vanno bene le adunate del cuore, le promesse di rimanere uniti davanti al Moloch della violenza domestica e dell’omofobia, la canzone “Simili” è la colonna sonora del Roma Pride in queste ore, ma il punto d’arrivo non è il palco, rimane il piano mediatico televisivo.
Sì, l’immagine del Meazza con i lucciconi del pubblico, la tensione palpabile di volersi scollare dai tormenti quotidiani, il rifugio della famiglia si sente, eccome. Ma oltre confine devi scegliere se essere Adele o Jennifer Lopez. Se tradurre le emozioni in storie da cantare o la tua vita in uno show. La Pausini è più Lopez, meno ex ragazza cresciuta a pianti e stenti. Il suo spettacolo ha tempi, luci e intenzioni da prima serata. La musica c’è ma non ha l’impronta americana e inglese che ti schiaccia sugli spalti, che ti fa dire: sto ascoltando il domani. E non può che essere così: la Pausini sa bene che «siamo un piccolo Paese interessante, ma sperduto nel mondo. Dove per sopravvivere devi infilare i guantoni da boxe».
Sa di aver ottenuto tanto per quello che la discografia italiana è stata in grado di offrirle. Se è andata avanti, e lo capisci da come si muove sul palco composto da schermi sui quali marciare, è per pura caparbietà, ostinazione oltre qualsiasi rapporto con fidanzati-manager e manager semplicemente sbagliati. Pausini oggi è quello che Mina, con tutti i distinguo possibile, è stata quarant’anni fa: una donna al limite, al bivio, allo spartiacque fra un mondo che conosceva e uno che non le apparteneva già più.
«E’ una di noi» dice una quarantenne in t-shirt, l’amica che è una goccia d’acqua, le due adolescenti in bandana e zainetto che sono il completamento generazionale. Le guarda e riflette: «Forse è il senso di una comunità che dà più spazio al cuore che al resto…». L’amica corre in soccorso: «Laura è simpatica, ci ispira fiducia». Fatto sta che due San Siro, più un Olimpico sabato prossimo e Bari il 18 hanno faticato un po’ a riempire. La bandiera c’è, farla sventolare è un’altra cosa. Poi verranno Canada e Nord e Centro America, l’impresa Pausini è impegnativa: «Se oggi il pop entra in modo massiccio negli stadi, è perché le persone vogliono emozionarsi, anche piangere. Certo, essere utili è anche meglio che smuovere il cuore» spiega.
Questo è un punto delicato, mentre lo sfavillio di luci e laser conferma la prima impressione, siamo in tv, hai voglia a pensare al pop di Michael Jackson. All’inizio del tour de force, 45 canzoni per ventitre di carriera, dice : «I soldati dell’amore io li chiamo simili… cercano di capirsi, di darsi una mano mentre intorno cercano di darsele di santa ragione. Liberi di essere diversi ma concentrati per rimanere insieme…». Qual è la Pausini che rappresenta il suo pubblico? Questa o quella astuta nel sembrare più snella con il trucco del tacco dodici su zeppa cinque, gonna al ginocchio e bolerino? Quella che cita il Magritte di “Decalcomania”, l’uomo con la bombetta, o quella che fa passare sui grandi schermi, tutti orlati di quadrifogli, simbolo beneaugurale, la figlia Paola di tre anni cantando “E’ a lei che devo l’amore”? Il pop suggerisce che ci può stare tutto, la saggezza romagnola propende per tenersi buoni i sentimenti-architrave: amore, famiglia, figli appunto.
I fans, si dice, sono sempre più realisti del re. E quando la Pausini affonda, nel senso di fare il passo lungo, in “Ascolta il tuo cuore”, “Invece no” dedicata alla nonna, “Come se non fosse stato mai amore”, “Celeste” da sola al pianoforte, piuttosto che “Vivimi”, “Strani amori” e “La solitudine” è evidente che lo stadio ribolle. Però lei sarebbe brava anche senza la mannaia della tv. Magari in futuro.
Per gentile concessione de Il Secolo XIX (05.06.2016)