Revolution: Franco Costalonga in mostra a New York fino al 17 luglio
“Devi assolutamente incontrare il Maestro. È un’occasione imperdibile, avrai accesso al suo mitico studio e potrai osservare da vicino il luogo in cui le sue straordinarie opere d’arte prendono forma”. Così Eva Zanardi, art advisor e direttore della comunicazione per GR Gallery New York, mi ha incuriosita ad approfondire quella che altrimenti sarebbe stata la classica recensione sull’ultima mostra presente in galleria. Presso la GR Gallery di New York, infatti, il 17 luglio si concluderà Revolution, esposizione che ripercorre la carriera dalla fine degli anni ’60 ad oggi, di uno dei più significativi artisti dell’arte cinetica e programmata in Italia, Franco Costalonga.
“Non ero presente all’opening, ma mi hanno detto essere stato un vero successo, tanti appassionati e tanta stampa, curiosa soprattutto dei miei ultimi lavori”. Esordisce con un sorriso gentile e sincero Costalonga alla mia prima domanda sulle sue impressioni riguardo questa sua ultima mostra nella grande mela. Mi ritrovo seduta ad un grande tavolo da lavoro in una dependance immersa in un tranquillo giardino, con grandi finestroni che permettono all’aria fresca e alla luce di entrare indisturbatamente. Sono circondata da opere d’arte finite e da strani oggetti, che lo diventeranno presto, stipati ovunque. Alcuni ordinati sulle mensole altri appesi al soffitto, altri ancora poggiati al pavimento. Ho quasi timore a muovermi per paura di urtare o rompere qualcosa.
“Le opere da mettere in mostra a New York sono state scelte da Giovanni Granzotto, critico e fondatore di GR Gallery, fra quelle che lui aveva già in deposito. Sull’organizzazione non sono intervenuto, ho lasciato carta bianca. Io e Granzotto ci consociamo da molti anni, la mia fiducia è ben riposta”.
Revolution mette in mostra oltre 30 opere di questo artista veneziano, includendo pezzi della serie Oggetti Cromocinetici, Oggetto Quadro Riguardanti i Gradienti di Luminosita’, Riflex, Mokubi e le nuove Onde Gravitazionali.
Per iniziare a parlare del suo lavoro, tra le tante opere create negli anni, Costalonga decide di partire dalle più recenti che attualmente sono in mostra a New York. “Le Onde Gravitazionali sono il mio ultimo lavoro, ne vado particolarmente fiero, sarà perché sono sempre stato in qualche modo legato e affascinato al cosmo, chissà. All’interno della struttura sono posizionate delle lampade che si accendono in successione in punti diversi, queste, riflesse da uno specchio curvo, creano non solo dinamicità ma anche un disegno di fasci luminosi sempre differente. Viste al buio danno l’idea di profondità, di spazio, inteso come cosmo, ecco il motivo per cui ho scelto di chiamarle Onde Gravitazionali. Chiaramente non vi è nulla di scientifico in tutto ciò, è pura ispirazione artistica”.
Ovunque poso lo sguardo, all’interno dello studio del maestro, vedo un’opera. E la mia attenzione viene catturata da un grande quadro nero e vuoto al cui interno sono visibili alcuni piccoli macchinari. “E quello cos’è? Sta lavorando a qualcosa di nuovo?”, senza saperlo stavo indicando una tra le opere più conosciute di Costalonga, le serie dei Cilindretti. Sorride e divertito si alza ed esce dalla stanza. Ricompare con un grande quadro nero con all’interno un disco nero su cui sono posati 676 piccoli cilindri a formare un quadrato.
“Voglio farle vedere cosa sono riuscito a sistemare. A dire il vero, queste opere seppur già realizzate nel passato, non avevano mai perfettamente funzionato, o si muovevano, o si torcevano, o si rompevano. La fortuna ha voluto che trovassi un aiutante che si intende di corrente elettrica e conosce il modo di costruire motorini per creare movimento”.
Accende un interruttore e il disco nero inizia a ruotare, iniziando a formare dei disegni geometrici. “Ho creato quest’opera per la prima volta nel 1973. Lo definisco un oggetto quadro sui gradienti di luminosità. Perché il gradiente di luminosità è dato dall’inclinazione del cilindretto e dalla luce che ci batte. Questi che vede sono completamente neri. Il cilindretto, il fondo, tutto è nero. Nel mio lavoro, nel mio modo di pensare la cosa importante sono i fatti percettivi, desidero approfondire, scoprire, far capire determinati fenomeni. Ho sentito il bisogno di farmi affiancare da qualcuno che meccanicamente fosse in grado di far vedere l’evoluzione del mio lavoro, di metterlo in movimento affinché fosse maggiormente comprensibile anche per lo spettatore. All’interno c’è un sistema di catene a cremagliera per cui tutto il movimento risulta fluido ed omogeneo. Si figuri che inizialmente usavo le catene del Meccano, gioco della mia generazione composto da barrette metalliche, viti, bulloni, cinghiette, con il quale si realizzavano modellini. Si trovavano anche delle catenelle, e io inizialmente usavo quelle. Ma ovviamente con il tempo cedevano o si allentavano e di fatto impedivano all’opera il movimento che lei vede oggi”.
L’effetto è ipnotico, e lascia percepire la meticolosità nell’assemblaggio. Constalonga puntualizza che i primi cilindretti erano dei bastoncini di legno che venivano segati a mano da lui ad uno ad uno. “A quel tempo collaboravo con la Vidal, per la quale disegnavo i flaconi dentro cui poi venivano inseriti shampoo, bagnoschiuma ecc. Lavorando lì ho avuto la possibilità di entrare in contatto con l’ufficio che si occupava degli stampi e ho chiesto se fosse possibile realizzare quello stesso cilindretto in plastica, e così fu. Lavorandoci venne l’idea di assemblarli su una piastrina quadrata, permettendomi di risparmiare moltissimo tempo. L’aspetto forse più interessante di questi stampi è che il cilindretto non è fisso sulla piastrina. Lo posso direzionare come preferisco, facendone una serie con rotazioni differenti, orizzontali, diagonali, concentriche, che poi, unite insieme, danno vita a disegni differenti. Le testine dei cilindretti vengono dipinte ad una ad una, un lavoretto di fino insomma, quando avevo tanto tempo da perdere”.
Comprendo immediatamente che la dedizione, l’impegno, ma soprattutto lo studio e la ricerca, sono strette compagne di Costalonga e del suo modo assolutamente particolare di fare arte. Dopo aver letto in internet le biografie standard a cui tutti hanno accesso, mi sento obbligata a capire da dove nasca questo metodo di lavoro e se c’è stato qualcuno che durante la sua vita artistica lo abbia aiutato a trovare questa particolare identità.
“Tutto nasce dalla Galleria Sincron di Brescia, il cui proprietario e direttore era Armando Nizzi. Intorno al 1970, pensò di far creare una edizione di Multipli chiamata Sincron 250. I multipli erano oggetti a due o più dimensioni, tendenzialmente a numero illimitato, e prodotti con lo scopo di esternare ad un vasto pubblico una informazione di carattere estetico, attraverso l’arte visiva. Le opere non dovevano essere una riproduzione di altre opere d’arte, ma assolutamente originali e la scelta dei materiali da utilizzare era libera purché a basso costo. L’idea di base era quella di permettere una diffusione dell’arte che fosse il più vasta possibile. E chi se non Bruno Munari poteva essere curatore di questo progetto?” Sorride nuovamente Costalonga ricordando il suo amico e collega. “La conoscenza con Bruno Munari è stata fondamentale per la mia carriera artistica. Lui mi ha aperto la mente. La scuola mi aveva inculcato l’idea della coerenza stilistica, senza mai troppo distaccarsi dal punto in cui si era partiti, rendendomi schiavo di questo dogma. Munari, invece, mi ha permesso di aprire una nuova visione sulla mia arte, facendomi diventare coerente nella mia incoerenza. Di spaziare nelle mie creazioni, tenendo ovviamente dei punti fermi nel mio lavoro come lo sono la luce e i giochi visivi”.
Le opere che rappresentano perfettamente questi punti fermi è sicuramente la serie chiamata Oggetti Cromocinetici. Lo studio di Costalonga in cui mi trovo, ne ha esempi poggiati ovunque. Uno, in particolare, è proprio davanti a me, e ha attirato la mia attenzione per quasi tutto il tempo dell’intervista. Un quadrato di 9 mezze sfere a specchio, vuote e con all’interno una linguetta colorata. O almeno questa è la mia percezione da seduta. Le sfere sono tutte vuote tranne una che sembra completamente colorata. Indico l’opera a Costalonga chiedendogli come mai avesse deciso di colorare solo una delle mezze sfere. Il maestro sorride divertito e mi invita ad alzarmi continuando a guardare l’opera di fronte a me. Improvvisamente le linguette colorate dentro alle sfere iniziano a muoversi e la sfera che prima credevo fosse interamente colorata diventa uguale alle altre. L’effetto visivo che se ne ottiene è sorprendente.
“È il fenomeno dello specchio sferico – mi spiega Costalonga – il punto che si trova a metà del raggio della sfera riempie la totalità della superfice, cioè sembra riempire interamente la sfera di colore. Io ho inserito uno dei miei cilindretti in questo punto esatto, nella metà del raggio, così quando si è perfettamente frontali, come lei prima, la mezza sfera si riempie di colore. Altro aspetto interessante è che se si osserva l‘opera muovendosi, si avrà l’impressione che tutte le linguette di colore ruotano con una velocità proporzionale alle distanze, tutte coordinate, cosa che anche un computer farebbe fatica a realizzare”.
Dal modo in cui questo maestro veneziano accosta la sua arte alla scienza, alla ricerca, alla tecnica lascia intuire che Costalonga se ne sia sempre servito traendone vantaggio, lo studio dei materiali e della tecnica per modellarli accompagna tutto il suo lavoro. Nelle sue opere è evidente come ci sia una conoscenza profonda della tecnica spinta al massimo per trovare risultati sempre nuovi e differenti. Come si intuisce guardando Sfera, sicuramente uno dei lavori più conosciuti del maestro, e inevitabilmente chiedo come sia finita una sua opera in uno dei musei più famosi del mondo: il Guggenheim di Venezia.
“Nel 1969 collaboravo spesso con la Galleria del Cavallino di Renato Cardazzo mercante di Venezia, che aveva diverse mie opere esposte, tra cui appunto Sfera, in metallo cromato e plexiglas. A quei tempi se un gallerista aveva rapporti con un artista cercava di sponsorizzare i suoi lavori e così la misero nella Vetrina di Frezzeria, di passaggio per il teatro la Fenice. Peggy Guggenheim, che ben conosceva la Galleria Cavallino, passando davanti alla vetrina si era incuriosita. Quel giorno ricevetti una telefonata durante la quale mi dissero che Peggy era interessata all’acquisto della mia opera ma voleva uno sconto. Io chiaramente di sconto non ne volevo assolutamente sentir parlare. Non ne avevo mai fatti prima e mai ne avrei fatti, se non altro per rispetto al mio lavoro. E pur di non perdere la vendita fu la galleria stessa a fare un prezzo di favore, anziché 120mila lire, pagò 115mila lire, che per il 1969 erano bei soldi”.
“Quindi per lei fu un momento di svolta per la sua carriera, gli artisti che entravano nelle grazie dei Guggenheim godevano di grande popolarità”.
“Io sono una persona molto introversa. Avendo un mio pezzo in collezione, Peggy mi invitava alle sue serate, agli eventi ai quali partecipavano tanti artisti dell’epoca. Ho conosciuto Edmondo Bacci, Giorgio Morandi, Emilio Vedova. Ma per loro ero solo un ragazzino, e detto con franchezza quello non era proprio il mio ambiente. Sono sempre stato un po’ riservato e schivo di carattere. Forse anche questo è il motivo per cui non sono mai stato sulla cresta dell’onda, non sono un bravo venditore di me stesso. Io volevo lavorare, fare le mie cose, non mi interessavo di tutta quella parte di public relations che, invece, mi rendo conto avrebbe fatto la differenza. Non sempre mi viene concesso spazio, nonostante i riconoscimenti o le vendite prestigiose come in questo caso.
Nel tono di Costalonga si avverte chiaramente una nostalgia per un passato dove il sostegno e il rispetto degli addetti ai lavori nei confronti degli artisti era molto più ponderato. Ma soprattutto soprattutto più esigente. Non tutti potevano fare arte. Dovevi avere qualcosa da dire, dovevi dimostrare le tue qualità e la validità del tuo lavoro. Molti artisti della stessa corrente artistica stentano a comprendere come si possa dare ampio spazio ad un’arte contemporanea che oggi risulta pressoché incomprensibile al pubblico. Il desiderio di far scoprire, di spiegare, di aprire gli occhi su alcuni fenomeni che la maggior parte delle persone ignora, era quasi una missione per loro. Una missione che oggi pare sia andata perduta.
“Le dico con franchezza che non ci capisco più niente. Noi abbiamo la Biennale che ci mantiene al corrente delle novità sull’arte contemporanea, quindi posso dire che, un po’ per lavoro, un po’ per mio interesse personale sono sempre informato riguardo le nuove correnti emergenti. Detto questo vedere un materasso calato dal soffitto con delle corde, potrà avere una serie infinita di significati ma che faccio fatica a comprendere fino in fondo. Devo dire, però, che il difetto che ha la nostra corrente, se di difetto si tratta, è quella di lasciare poco spazio alla critica di argomentare le nostre opere, soprattutto dal punto di vista sociologico. La nostra corrente è da sempre contraria alla letteratura applicata alle arti figurative, perché aggiunge cose che sono in contrasto con il senso stesso delle opere. Noi occupiamo della conoscenza dei colori, dei fatti percettivi, il voler spiegare determinati fenomeni attraverso le nostre opere. Io credo che alcuni fenomeni che io sono in grado di vedere, molte persone non vedono e per me è importante abbattere questo limite. Sorprendere, incuriosire ma attraverso fondamenti logici, riconoscibili. Purtroppo per alcune cose che vedo in giro ultimamente dico bho. E meno male che sono del mestiere”.
Anna Cugini @ninaladies @anna_cugini
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