D.A.D. Double-Arm/Android-Device, l’arma è perfetta perfetta ma le storie non funzionano. La recensione.
Quando il papà le preannuncia un improvviso viaggio dai nonni e una altrettanto imprevista chiusura della scuola la piccola Sara (Eleonora Trevisani) pare intuire subito che qualcosa di strano sta per succedere. La sensazione non la abbandona una volta giunta a casa, anzi: la mamma esibisce una calma eccessivamente forzata mentre gli sguardi tra lei e il marito tradiscono un’angoscia smisurata. E, infatti, il giorno dopo è una raffica mortale di colpi di arma da fuoco a svegliare la famiglia e a distruggere quello che fino ad allora è stato l’intero mondo di Sara: miracolosamente sfuggita alla strage, grazie al sacrificio della madre, la bambina cade in un buco e si risveglia in quello che pare essere un cantiere.
A prendersi cura della bambina ci pensano un medico e una strana ragazza in abiti maschili, ma ciò che le capita intorno è sempre più bizzarro: nessuno di quelli che si trovano a condividere il suo stesso spazio cammina normalmente. Tutti procedono carponi, strisciando, piegati sulle ginocchia o tenendo molto bassa la testa. La spiegazione di questo mistero è presto svelata in tutto il suo orrore: chiunque si azzardi ad alzarsi normalmente in piedi viene falciato da un’infinità di proiettili, che non lasciano scampo. Come faranno i 19 superstiti, di fatto bloccati in questo limbo che tanto li protegge quanto li imprigiona, a fuggire da lì? E, soprattutto, fuggire verso cosa visto che i contatti con il resto del mondo paiono impossibili?
D.A.D. Double-Arm/Android-Device è l’opera prima del regista Marco Maccaferri che, per il suo debutto sul grande schermo, ha scelto un filone abbastanza originale per quanto riguarda il cinema italiano: quello del thriller post apocalittico, incentrato totalmente su ciò che provano i sopravvissuti e sulle dinamiche che si creano tra loro, su cui incombe una oscura minaccia costante e mortale. Purtroppo l’enorme potenziale di un film del genere è sprecato da alcune dubbie scelte di montaggio e da una sceneggiatura sicuramente non all’altezza del progetto. Nel tentativo di tipicizzare i 19 personaggi principali, infatti, Marco Maccaferri e Antonello Rinaldi – che con il regista ha scritto il film – finiscono per stereotiparli: l’effetto è quello da concorrenti di reality, con la brutta invidiosa, la bella gatta morta, l’imprenditore che da anni ha una relazione con la devotissima segretaria, il vecchio saggio, il maschio sicuro di sé; mentre gli elementi più misteriosi – la ragazza dal nome e dagli abiti maschili, un inquietante terzetto in abito di nozze, una straniera che si dichiara impiegata di un night club ma che dimostra un piglio decisamente militare – non vengono sviluppati a sufficienza così da restare vuoti tentativi autoreferenziali.Forse sarebbe bastato limitare il numero dei protagonisti e – invece che un film corale finito per soffocare le numerose storie – concentrarsi su alcune vicende, creando nello spettatore una immedesimazione spontanea e coinvolgente. Il materiale c’era: lo dimostrano con le loro doti recitative Elisabetta De Palo e Alice Torriani, che danno vita a uno straziante ritratto di famiglia formato da una donna malata Alzheimer scostante e viziata e una figlia vorace di tutte quelle attenzioni che la madre non le ha mai concesso; Valentina Mignogna, giovane attrice il cui sogno di iscriversi all’accademia verrà infranto dalla folle realtà che si ritroverà a vivere, spezzandole il cuore e tutte le ossa; Emilia Scarpati Fanetti, caratterizzata da un’ambiguità che farà sorgere fino all’ultimo più di un qualche interrogativo in chi la osserva; Magdalena Grochowska, segnata da una ambivalenza che non troverà alcuna risposta; Giovanni Battaglia, dotato di una istrionicità che calza a pennello con quel ruolo di Cassandra cucitogli addosso; Eleonora Trevisani, la cui giovanissima freschezza riesce in qualche modo a tenere unita una trama che pare sfilacciarsi ad ogni nuovo passaggio. Su tutti, però, svetta l’interpretazione di Hervé Diasnas che, grazie alle sue immense doti espressive derivate dalla professione di danzatore e senza dire praticamente mai una parola, imprimerà al suo personaggio di silente leader del gruppo una poeticità indimenticabile.Eppure tutto ciò non basta: gli spunti finiscono per afflosciarsi su dialoghi da soap opera italiana (non è un caso che gran parte del cast tecnico – regista compreso – provenga da esperienze nel genere, una su tutti Vivere) la visionarietà diviene illogicità e l’ansia di sapere si trasforma in vaga noia, complice un finale i cui ultimi minuti sono decisamente accessori.