La vittoria in America di Donald Trump è stata anche la sconfitta dei cosiddetti “radical chic” (perdonate il termine adusato, ma dai tempi di Tom Wolfe le cose non sono cambiate e i tic degli intellettuali americani sono sempre gli stessi). A parte le promesse orali di Madonna, la minaccia di Robert De Niro – pare già rientrata – di emigrare in Molise, la decisione di Stephen King di ritirarsi da Internet, più in generale i lai degli opinion maker del mondo dello spettacolo e della cultura – ricchi di fama e denari e spocchia – fanno semplicemente ridere.
Le visioni apocalittiche dell’intellighenzia hollywoodiana sono però le stesse che inquietano la gauche caviar nostrana, entrambe accomunate da una sorta di riflesso pavloviano antidemocratico, di definire populista chiunque non garbi, di usare il vocabolo “demagogia” quando la democrazia li spaventa.
Così è se vi pare. Ci si fa il callo a tanta democraticissima incoerenza. Certo che a leggere le interviste rilasciate ad Artribune da alcuni operatori italiani del settore arte che vivono negli Stati Uniti, l’imbarazzato sorriso con cui siamo soliti ascoltare tali ragionamenti rischia di trasformarsi in emiparesi.
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Gian Maria Tosatti (artista, classe 1980, residente New York) dice testuale: “Il risultato di queste elezioni costituisce la risposta perfetta alla domanda ricorrente che mi viene posta sul perché non abbia mai voluto prendere un visto d’immigrazione negli Stati Uniti, pur essendomici trasferito da anni. La ragione è che gli U.S.A. sono il Paese che ha votato Trump, che ha eletto G.W. Bush due volte, che ha manifestato in massa contro l’Obamacare. Io non ne faccio parte e non ne farò mai parte. Se New York fosse una città-stato il visto lo avrei chiesto già dal 2008. Ma non lo è. E così preferisco considerarmi sempre e soltanto un ospite. Cercando, al massimo, di fare la mia parte realizzando progetti che facciano interrogare i cittadini sulle contraddizioni della democrazia americana, come sto facendo dal 2011”.
L’afflato missionaristico di Tosatti, vivere dal 2011 in partibus infidelium per suscitare negli americani dubbi sulla democrazia americana (non in Cina o a Cuba o in Corea), rasenta il ridicolo, di un’autorappresentazione di sé stessi senza il minimo senso dell’ironia o delle proprie misure.
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Non diverso però il ragionamento di Federico Solmi (artista, 1973, residente a New York): “L’America della Cultura è sicuramente sotto shock, nessun operatore del settore culturale nelle grandi capitali dell’arte americana, come New York e Los Angeles, credeva possibile l’elezione di Donald Trump alla presidenza. Anzi, tutti, incluso me, hanno sottovalutato le potenzialità del candidato repubblicano, dato per spacciato anche in tutti i polls che hanno preceduto le elezioni. Gli Stati Uniti sono un Paese incredibilmente diviso, spaccato, e di certo Trump non aiuterà a ricucire le ferite. Credo che il Partito Democratico debba fare un esame di coscienza. Quello che è mancato è stato il voto degli afroamericani e del popolo latino. Una cosa è certa: Donald Trump non ha mai dimostrato un grande interesse per l’arte e la cultura e mi sorprenderebbe vedere che in futuro si impegni a fare investimenti in questo settore. È molto difficile in questo momento cercare di essere ottimisti. Vorrei chiudere questo mia breve commento con una frase di George Grosz, nella quale descriveva le masse come un gregge alla deriva che non sa fare altro che scegliere il proprio carnefice”.
La frase di Grosz che Solmi cita è esattamente la rappresentazione plastica del classismo che contraddistingue gli intellettuali Capalbio style (ricordate la levata di scudi quasi razzista quando gli emigrati superarono il numero lecito nell’esclusiva località Toscana?).
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Vincenzo de Bellis (curator ex direttore del MiArt) è fra tutti il più apocalittico e minaccia come un qualsiasi De Niro di lasciare Minneapolis (che a sentire lui è “rossa” come Sesto San Giovanni o Livorno) qualora le cose peggiorassero: “La notte appena passata qui è stata davvero surreale. Sono andato via dal museo che erano tutti eccitati per una notte che avrebbe cambiato loro la vita (la prima donna eletta Presidente) e oggi sono rientrato con una notte che gli/ci ha cambiato la vita, ma in modo molto differente da come ci aspettavamo. Minneapolis e il Minnesota sono rispettivamente una città e uno Stato molto liberali (qui alle primarie ha vinto Sanders, che era il più liberal e di sinistra di tutti. Giusto per darvi un’idea di dove viviamo). Nessuno, e dico nessuno, intorno a me, sospettava sarebbe potuto accedere. Io ero il più sospettoso e preoccupato perché, avendo il visto di soli due anni, pensavo agli scenari successivi, date le premesse dei discorsi iper-protezionisti di Trump. Oggi 4 su 7 colleghi del dipartimento non sono nemmeno venuti a lavoro. C’è un’atmosfera funerea, nonostante fuori ci siamo un sole meraviglioso e 16 gradi che per Minneapolis il 9 novembre è un miracolo…. Se tutto quello che Trump ha detto e fatto in campagna elettorale sarà ripetuto nelle sue politiche (cosa di cui dubito), allora questo Paese, che io amo e rispetto e che 8 anni fa mi ha cambiato la vita e ora mi dà questa grande opportunità, non sarà più quel Paese e non sarà più il posto dove vorrò vivere, lavorare e crescere mio figlio. Io sono un esempio del perché questo Paese è diverso dagli altri. Questo è un Paese di libertà e di opportunità, dove tutti hanno la possibilità di avere una voce e provare a farcela. Se questo cambiasse per delle politiche conservatrici e protezionistiche, allora davvero sarà il momento di andare via”.
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Chiara Bernasconi (1980 lavora al Momam di New York) è atterrita e al pari di Tosatti crede che sia necessario farsi ancor più di prima “attivista” e cita – o almeno sembra citare – come esempio di massima libertà artistica da difendere un’opera di Chris Ofili che rappresenta la vergine Maria, composta anche di immagini pornografiche e sterco di elefante (detto per inciso e ad onor del vero, l’opera ha vinto il Turner Prize ed è stata battuta all’asta per quasi 5milioni di dollari): “Purtroppo non ho parole per spiegare, a New York siamo sotto shock. Chi lavora nel mondo dell’arte e della cultura vive in una bolla, me compresa, non avrei mai pensato che questo esito fosse possibile. Per il nuovo Presidente l’arte e la cultura non sono assolutamente una priorità. Parlando di educazione, ha detto che le scelte a riguardo devono essere lasciate in mano ai distretti locali e ai genitori: “The federal government needs to get out of the education business and let the states, local districts and parents determine what is taught in our schools”. In passato ha parlato che se fosse stato per lui avrebbe bloccato i fondi del NEA per un’opera di Chris Ofili, The Holy Mary Virgin, che contiene sterco di vacca, un’opera a suo parere “degenerata”, senza sapere che il National Endowment for the Arts non aveva finanziato la mostra in nessun modo. L’agenda di Trump non è legata a un piano politico o a un’ideologia, ma è governata da istinti e vantaggi di parte. Il risultato di queste elezioni è una prova che c’è molto lavoro da fare, sul piano umano prima di tutto, capire perché così tante persone sono tanto scontente negli USA da avere eletto questo Presidente. Poi bisognerà passare a rimboccarsi le maniche e a essere ancora più attivisti di prima. Dovremo dedicarci ora più di prima all’educazione, allo studio della storia e alle arti come espressione della nostra umanità, come ponte tra le differenze, sociali, razziali, di sesso, per costruire i nostri sogni e un mondo migliore. Oggi ancora più di prima chi lavora nelle arti deve essere attivista prima di tutto”.
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Silvia Filippino Fantoni (41 anni, direttore di Mediazione, nuovi media e ricerca sul pubblico del Museo d’arte di Indianapolis) la butta sul fattore economico poiché l’elezione di Trump potrebbe generare una lunga crisi finanziaria in grado, ovviamente, di destabilizzare anche l’investimento culturale: “La maggioranza dei musei e istituzioni culturali americani non dipendono da finanziamenti statali, per cui, in un certo senso, sono meno esposti ai risultati elettorali. Sfortunatamente queste stesse istituzioni dipendono da dotazioni (endowment) che vengono investite nel mercato azionario e producono interessi annuali, che permettono loro di funzionare. Una prolungata crisi dei mercati in risposta al risultato elettorale e alle eventuali politiche del governo Trump può quindi avere delle conseguenze negative sulla salute finanziaria di molte istituzioni culturali. La mia speranza è che, nell’attuale clima di divisione e razzismo che sembra dominare il paese, le istituzioni culturali possano avere un ruolo sempre più importante nell’educazione del pubblico sull’importanza e sul valore delle differenze culturali e, nel contempo, offrire opportunità di dialogo su alcune delle questioni fondamentali relative alla nostra società. Perché questo avvenga è però necessario che tali istituzioni facciano ulteriori sforzi per aprirsi a un pubblico sempre più vasto, includendo anche le fasce demografiche meno abbienti e acculturate”.
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Alessandro Facente (curator, 1982, residente a New York) è l’unico degli intervistati che affronta l’elezione di Trump in termini quasi sereni, ricordando che l’America può contare su solidi anticorpi contro le derive antidemocratiche che invece – sottolineamo noi – hanno funestato in passato i paesi europei, Italia compresa: “La scelta di Donald Trump è legata a quell’antipolitica che sta emergendo in gran parte dell’Occidente. Qui, tuttavia, la differenza la può giocare la forza di questo Paese che si fonda sul valore del singolo e il suo ruolo nel mantenere una visione critica sulla realtà che lo circonda. Lo scorso 29 luglio, nel suo endorsement alla Clinton, l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg ha dichiarato che ognuno è chiamato a essere un unificatore e costruire consenso, riconoscendo che chiunque deve contribuire con qualche cosa. Ecco che la vita e la cultura, dopo la vittoria di Trump, hanno comunque possibilità di svilupparsi, in quanto generate da un insieme di individui che sarà sempre chiamato a evolvere la società, arricchendola con ciò che ha da offrire”.