Ci sono città al mondo dove sembra che il destino sia facilitato nel riunire energie creative e sviluppare occasioni di forte confronto. New York nonostante tutte le sue contraddizioni, è da sempre uno di questi luoghi dove Angelica Bergamini vive ormai da più di dieci anni dando vita ad una costante evoluzione artistica che l’ha portata in questi ultimi mesi a realizzare una personale di successo presso la Ivy Brown Gallery. Uno spazio molto particolare e di forte carattere dove le opere di Angelica si sono perfettamente inserite stimolando nel pubblico momenti di riflessioni. All’interno di Conscious sono state presentate tre serie di lavori che abbiamo analizzato assieme all’artista e alla gallerista.
Angelica, in questi anni sei passata dalla realizzazione di opere più materiche fino ad esplorare ogni tipo di linguaggio, dalla fotografia all’immagine in movimento. Non a caso il tuo lavoro è definito un mixed media. Questa ricerca corrisponde sicuramente ad una tua introspezione personale. Ci puoi illustrare come sono avvenuti questi passaggi?
La mia ricerca artistica si sviluppa in maniera organica, indipendente dal mezzo espressivo. Un linguaggio ispirato dalla ricerca di un equilibrio nel mondo, nel quotidiano e dentro di me. Nei quadri astratti della serie Paesaggi dell’anima (tecnica mista su carta, legno e tela) e nelle sculture ispirate da elementi della natura (realizzate in filo da pesca e ferro) c’è uno sguardo rivolto all’esterno, dove il paesaggio è metafora di uno stato d’animo.
Ad un certo punto l’occhio si è rivolto all’interno e con la scultura Respirando, ho cominciato ad immaginare un paesaggio interiore, in continuo movimento; cosa avviene nel nostro corpo quando si respira. Il respiro come ponte fra l’esterno e l’interno è ancora oggi uno degli elementi principali della mia ricerca. Il punto di partenza per una presa di coscienza di sé, del nostro corpo e del nostro essere qui ed ora.
Così l’attenzione a questo meccanismo vitale mi ha portata dalle sensazioni nel corpo al movimento della psiche. Con Memento e Know thyself comincio a sviluppare una serie di lavori che si avvalgono sia della fotografia che del video, mezzi che ho trovato più idonei per dar forma a questo “racconto”.
In Know thyself i paesaggi astratti di cui accennavo all’inizio, si ripresentano questa volta realizzati su carta fotografica Ilford per stampa digitale dove intervengo con tecnica mista e sulla quale una volta realizzato lo sfondo stampo un elemento fotografico.
I paper cut come il video sono stati per me uno sviluppo naturale di questi lavori.
Infatti nella serie Freedom il punto di partenza è sempre la fotografia che scompongo e ricompongo tridimensionalmente per ricreare alla parete l’effetto di un libro pop up. Per l’animazione dei mie quadri ho sostituito alla parte fotografica il video mantenendo però la texture del quadro, rappresentazione appunto di un paesaggio interiore. Per il suono che è un elemento per me fondamentale per completare l’atmosfera del video, collaboro con un fonico (Gillian Arthur) e una sound artist (Erin Arthur).
Nonostante abiti nella metropoli per eccellenza, trovo che le tue opere siano invece sempre più vissute in un’atmosfera aurea, lontane dal clamore e dalla vita frenetica, un messaggio di grande serenità. Come sei riuscita a trovare questo equilibrio (immagino non sempre semplice) così come lo rappresenti nel video “Will you fight or will you dance”?
Fino al 2008 ho condiviso uno spazio nel 5points Building davanti al museo PS1, mecca dei graffiti artists e dimora di studi di artisti. Poi trovato un appartamento più grande, ho deciso di fare in una delle stanze il mio studio. L’ambiente che ho a disposizione è più spazioso e mi permette di lavorare in silenzio e in solitudine, prerogative per me necessarie. E non dovendo più trascorrere quasi 2 ore al giorno sulla metro per andare in studio, comincio la mia mattina con una breve pratica di yoga e meditazione. Inoltre questa zona di Brooklyn è molto verde, cosa di cui ho sentito il bisogno negli ultimi anni. Vivo e lavoro in una città estremamente stimolante dove a un blocco dal parco di Brooklyn ho costruito il mio piccolo “eremo” dal quale porto avanti la mia ricerca artistica. Perché New York è un condensato culturale del mondo nel quale sei a contatto costante anche se marginalmente con culture e lingue diverse e sei sottoposto a stimoli continui. Hai il mondo praticamente fuori dalla porta, ed e`stato proprio questo contrasto fra dentro e fuori che mi ha portata a sviluppare visivamente la serie di opere presentate durante Conscious.
Memento, Know thyself and Freedom raccontano un percorso di analisi del sé e come pagine di un diario questi lavori hanno avuto la funzione di mostrarmi dove ero.
Come in Will you fight or Will you dance (nel video la domanda è rivolta anche allo spettatore) dove rappresento la ricerca di un equilibrio interiore nella nostra quotidianità.
La mostra si chiama Conscious (cosciente) com’è nato questo titolo?
E’ stata Ivy a suggerirlo dicendomi che non vede separazione fra quello che esprimo nella mia arte e come vivo: la prima è lo specchio della seconda. Non è stato un lavoro in particolare che ha influito nella scelta del titolo quanto piuttosto una frase di Jiddu Krishnamurti che avevo annotato per la serie Know thyself : “La libertà comincia con la conoscenza di sé”.
Interviene Ivy Brown:
Il titolo è stato scelto dopo che io ed Angelica abbiamo discusso il significato del lavoro, della mostra e come volevamo esprimerlo con una sola parola.
Le opere presentate in questa mostra parlano della consapevolezza e del viaggio che Angelica ha intrapreso per raggiungerla. Abbiamo pensato a diversi titoli, ma poi abbiamo compreso che Conscious abbracciava il significato delle tre serie di lavori in esposizione.
Approfitto per fare qualche domanda a Ivy Brown. Nel 1985 hai fondato la tua prima attività nel Meatpacking District un quartiere che da allora è cambiato totalmente. Come ha vissuto le tue prime esperienze in questo quartiere e quanto le sue trasformazioni sociali hanno influito nel tuo lavoro?
Nel 1985 mi trasferii al 675 di Hudson Street dove apri un’agenzia di rappresentanza per fotografi e stilisti, ma siccome all’epoca nessuno si avvicinava a questo quartiere, spostai la sede a Soho dove rimasi fino a che i primi studi fotografici cominciarono ad aprire anche nel Meatpacking.
Nel 2001 ho quindi riaperto al 675 di Hudson Street dove ho deciso di far nascere anche una galleria d’arte nella quale sia io che i fotografi che rappresentavo potessimo esprimerci creativamente distanziandoci dal lavoro puramente commerciale.
Inizialmente l’area era considerata poco raccomandabile: travestiti, laboratori di macellazione e bar sadomaso. Queste erano le cose principali che si trovavano in questo quartiere. Tra l’altro con carne, sangue e ossa ovunque l’odore che si respirava era nauseabondo, tanto che ricordo non aver respirato dal naso per lungo tempo…E nello stesso periodo ho anche smesso di mangiare carne.
Oggi è un quartiere sempre più esclusivo e non più stravagante come una volta, ma è sempre molto bello; amo la sua architettura e il fatto che da qui puoi ancora vedere il cielo.
La tua attuale galleria nata nel 2001 è all’interno di un particolare edificio triangolare newyorkese. Puoi illustrarci dove è rivolta principalmente la tua ricerca e soprattutto cosa deve attirarti maggiormente di un’artista per comprendere che è perfetto per il tuo spazio?
Già dalla forma del palazzo e dal tipo di costruzione non è sicuramente una galleria convenzionale e quindi è un luogo con un sacco di personalità. Insomma non si tratta della solita scatola con il pavimento di cemento. Per questo motivo si deve lavorare in accordo con lo spazio che impone come esporre i lavori. E’ un processo decisamente organico: sia il lavoro che l’artista devono essere in sintonia con la galleria.
Per quanto riguarda gli artisti con cui collaboriamo gli incontriamo in maniere diverse: dalle raccomandazioni agli incontri casuali.
A New York hai l’opportunità di conoscere artisti di talento ma molti di loro non hanno la possibilità di esporre. Abbiamo un gruppo di artisti che rappresentiamo, e altri con i quali facciamo solo una mostra. Dipende, come nella vita. Mostro lavori che hanno un significato per me e che mi emozionano senza distinzione di medium.
La tua conoscenza con Angelica è nata casualmente durante delle lezioni di yoga, ritengo che non poteva esserci posto migliore! Come hai capito che dovevi ospitare la sua personale Conscious?
Ho incontrato Angelica all’Integral Yoga Institute di NY dove frequentiamo la stessa lezione, ma è stato durante una cena di beneficenza per l’istituto che abbiamo cominciato a parlare d’arte e ci siamo scambiate il biglietto da visita. Quando sono andata al suo studio mi ha colpito la sua ricerca e come si sviluppa attraverso diverse tecniche. Un corpo di lavoro che necessitava essere mostrato nella sua totalità.
Conscious è appena terminata ma abbiamo già altri due progetti in cantiere: una collettiva a febbraio e un’altra personale di Angelica a maggio del 2018 durante Frieze New York.
Concludo con un’ultima domanda ad Angelica:
le tue opere, come abbiamo detto, raccontano la tua interiorità ma al tempo stesso ogni spettatore vi può ritrovare sensazioni ed emozioni personali; è presente un dialogo costante con lo spettatore. Cosa pensi che la gente ricerchi in questo XXI secolo e soprattutto cosa stiamo rischiando di perdere?
Penso che si stia perdendo e conseguentemente ricercando il contatto con noi stessi e gli altri.
La possibilità e il tempo per ascoltarsi ed ascoltare. L’uso eccessivo delle tecnologie che sembra avvicinarci da un capo all’altro del mondo, rischia di allontanarci da ciò che abbiamo nel presente.
Ho appena finito di leggere un piccolo libro, intervista di Filippo La Porta a Marc Augé
che si intitola Prendere Tempo. Parla dell’arte di prendersi il proprio tempo, di non andare di fretta che è assolutamente in contrasto con il nostro attuale modo di vivere e di lavorare.
Darsi la possibilità di rispondere piuttosto che di reagire.
Mi sono resa conto che la mia ricerca artistica degli ultimi anni è stata proprio il frutto di una pausa, durante la quale ho cercato di entrare in contatto con quelle parti di noi che non abbiamo mai tempo di ascoltare.
Sono assolutamente convinta che una maggior coscienza di sé porta ad una migliore comprensione del prossimo. Riconoscere le nostre ombre è un passo necessario per aprirsi onestamente all’altro.