Fashion Intelligence (Edizioni dal Sud, 133 pp.) è un progetto editoriale che mira ad innescare un percorso di consapevolezza della moda quale fenomeno sociale che parla delle nostre individualità. Presentato il 7 giugno 2016 presso la Galleria d’arte contemporanea BluOrg di Bari, il saggio si avvale di una serie di contributi che spaziano dalla prospettiva socio-semiotica agli studi culturali, dalla psicologia all’arte, e sarà discusso il 18 novembre presso la Fondazione Gianfranco Ferrè.
La proposta teorico-applicativa di guardare la moda attraverso una lente di senso estetico-cognitivo racchiude il taglio critico stesso del volume: esiste un’intelligenza di moda capace di raccontare del nostro modo di valutare la bellezza e l’appartenenza ad una società, così come di resistere all’annullamento della nostra soggettività all’interno di sofisticati meccanismi di costruzione del fascino. Innanzitutto, le autrici si interrogano sulla percezione di naturalezza e artificiosità riferita al vestito e in questo senso indagano su come l’abbigliamento diventi attore protagonista nell’immaginario cinematografico.
L’azione narrativa è molto spesso incarnata dall’abito che suggella proprietà inconsce dei personaggi o anticipa determinati esiti tanto da far prefigurare l’esistenza di un vestito criminale (Patrizia Calefato a proposito del film di Hitchcok “Dial M for Murder” – 1954 – in cui Grace Kelly indossa un abito color rosso scarlatto come il suo rossetto e come il sangue che verserà, pp. 14-15).
La personalizzazione e il senso di comunità rappresentano due snodi attorno ai quali ruota il significato della moda come capacità di dare un senso emotivo e collettivo al corpo rivestito. Molto interessante è la discussione portata avanti da Claudia Attimonelli sui recenti fenomeni di iconizzazione del disagio (p. 48) e dell’incorporazione dei codici del “bandito, reietto, brutto” all’interno di un panorama di tendenza (la figura del clochard, l’estetica dandy, punk e l’uso del teschio), mostrando come i percorsi di atomizzazione pervadano la scena mainstream producendo un ordinario anomico (p. 62) in cui le contaminazioni spersonalizzano sottoculture e creano nuovi universi eccentrici.
Le principali criticità del saggio appaiono relative ad una mancata discussione sulle differenze tra intelligenza emotiva e intelligenza di moda (pp. 68-69), laddove la prima si esplica non solo nelle abilità di riconoscimento delle espressioni facciali ma anche nella capacità di distinguerle dal vissuto emotivo. A questo proposito, sarebbe stato utile approfondire i processi di percezione e attribuzione del “bello” data la vasta letteratura scientifica che contrasta con un impianto etnocentrico nella valutazione delle emozioni e della loro funzione, laddove Smiliana Grujic riferisce di alcune ricerche che concordano su alcuni standard di bellezza ritenuti universali ma non sembra citarle (p. 71). La bellezza e i suoi legami con la femminilità, per esempio, sono inscritti anche nella storia psicoanalitica e artistica occidentale a seconda delle accezioni di serenità, opulenza, rassicurazione, seduzione.
La sociologa Oyeronke Oyewumi nella sua opera “The Invention of Women. Making an African Sense of Western Gender Discourses” (1997) tratteggia l’assenza della nozione “donna” all’interno della comunità nigeriana Yoruba prima della storia coloniale non tanto alla luce di un’interpretazione post-strutturalista del corpo e delle differenze fisiche, quanto per decostruire l’automatismo occidentale che pone il binomio uomo-donna alla base del pensiero sociale e della formazione dell’identità.
A seguire l’intervista rilasciataci da una delle autrici di Fashion Intelligence, Claudia Attimonelli:
Nella tua analisi dell’estetica del disagio ti concentri sulla cultura visuale del teschio e le relative implicazioni sul significato di soggettività, vitalità, espresse dal volto: “disfarsi del viso” (Deleuze e Guattari, 1996) corrisponderebbe al farla finita con l’ottica del primo piano? Che tipo di narrazione sostituirebbe questa forma di riconoscimento?
L’idea proposta da Deleuze e Guattari nell’opera Come farsi un corpo senz’organi per me costituisce una possibile frontiera per la comunicazione della moda, “disfare il volto” significa uscire dalla sua grammatica estetica precostituita e ammettere che ve ne siano altre che riescano ugualmente a dire e a raccontare corporeità altre. Ho portato l’esempio dell’estetica Junkie, del Disagio, attraverso l’evoluzione dello stile cosiddetto heroin-chic à la Kate Moss, della diffusione del teschio e dell’immaginario della morte, perché è il luogo più esorbitante dove sono emerse delle tracce di deviazione dai modelli di bellezza condivisi. Sicché, come ha seminalmente scritto Patrizia Calefato nel suo celebre studio sul Corpo Rivestito, vi sono dei segni che sono del corpo prima ancora che lo vestiamo. Essi sono già moda. Una moda che ci riveste prima ancora di poter scegliere l’abito. Per rispondere più praticamente alla tua importante domanda, mi viene in mente un esempio, quella più difficile e radicale ad essere sostituita è la narrazione del volto nella moda cosmetica. Come è possibile uscire dalla costruzione di un’immagine pubblicitaria che abbia la pelle, le labbra, le pieghe del volto non ritoccate, e che senso avrebbe e per chi, tentare per la cosmesi una nuova narrazione che provi a non tenere conto della radicata abitudine a non vedere e fingere di non conoscere i segni del volto – rughe, brufoli, macchie, screpolature, unto, pur presenti in volti peraltro bellissimi. Il punk vi era riuscito proprio nell’unica cosa che non è mai stata riciclata dalla moda.
Quale evoluzione temporale ammette la moda dal tuo punto di vista?
Nel Dialogo della Moda e della Morte (1824) di Giacomo Leopardi le due sono sorelle, e sono nate da una categoria temporale che è la “caducità” e sono colte mentre corrono nel tempo, intersecando i piani del divenire altro, con interruzioni che sono ora estetiche, societali, antropologiche, ora esistenziali: “Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare” e poco oltre, “Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, e più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte”.
Partendo da questa suggestione letteraria potente, anche perché ottocentesca antecedente dunque le discipline nate intorno alla moda – Sociologia della moda, Fashion Theory e Studies, Sociosemiotica della moda – per citare gli approcci più teorici, ritengo che la moda si trovi in una inestricabile condizione dinamica tra evolversi e restare ferma lì dove il corpo la tiene. Da un lato, infatti, la moda vestimentaria tenta ad ogni stagione di reinventarsi, l’haute couture da un lato e la strada dall’altro, costituiscono i momenti di evoluzione, anche fuori dall’ordine del discorso, d’altra parte una tale arbitrarietà si ferma davanti ad un fatto, esso è il corpo. Non si può uscire dal sistema, due braccia, due gambe, un collo con la testa, elementi che impongono una variazione sul tema fatta piuttosto di dettagli, citazioni dal passato o dall’altrove esotico. Ritengo, quindi, che un’evoluzione sia possibile nel momento in cui si comprendono di ogni epoca i tabù. E così, ad esempio, nella nostra epoca la gonna maschile potrebbe costituire un’evoluzione.
Come spiegheresti la convivenza tra super ego e istinti nella moda, must e desire, nel determinare libere scelte?
“Distinzione e imitazione”, sono i due principi attorno ai quali due grandi filosofi e sociologi, Georg Simmel e Thorstein Veblen nell’Ottocento hanno compreso i processi che guidano la moda. Sicché, per scegliere un esempio noto e molto chiaro, la diffusione “a cascata” detta trickles down di un capo quale è stato il tailleur femminile di Coco Chanel nato per un’élite societale, viene recepito dal mercato che ne procura le imitazioni più accessibili rendendolo prodotto di massa, e producendo la necessità di distinguersi attraverso la creazione di un nuovo capo (o financo stile) e così via. Desiderio e necessità tuttavia sono sempre più confusi in una comune spirale, che paradossalmente oggi ricerca nella moda comune e in processi di neotribalizzazione una forma di distinzione dall’individualismo che ha caratterizzato il secolo scorso fino agli anni Ottanta. Si desidera nuovamente appartenere, affiliarsi, ritrovarsi nei piccoli processi vestimentari e nei segni di stile che accomunano.
La combinazione di materia e spirito viene letta all’interno del saggio attraverso la disamina de La Camicia Bianca di Gianfranco Ferrè (pp. 115-116). A questo riguardo, volevo chiederti un’ultima riflessione sul bianco, perché il bianco conta. Non c’è segno senza interpretante (“White Matters”, Petrilli, 2006) e il bianco è il neutro che decide le connotazioni visive altre-da-sé. L’aderenza e la limpidezza che non nascondono quello che c’è sotto fanno parte di un habitus visuale occidentale tanto che il bianco può coprire le differenze e divenire facilmente entità fissa e prestabilita: quale spazio per personalità segnate da sé e non disegnate da altri nell’odierno panorama fashion? Come può il bianco mostrare individualità e non piuttosto linearità, trasparenza, potere?
Vi è, a mio parere un’unica possibilità per il bianco di farsi portatore di individualità limitandomi alla rappresentazione dell’immaginario occidentale, poiché altrove il bianco costituisce tutt’altro sistema interpretativo (è noto ad esempio che in Giappone il colore bianco stia sotto il segno del lutto, diversamente che da noi). E si tratta di una condizione non nuova ma sempre esistita e interna alla significanza del nero. Si pensi più radicalmente al fatto che vi sono dei gradi del segno che precedono il processo stesso di interpretazione, quali sono il colore della pelle prima ancora che il colore dell’abito, dunque non vestirsi di bianco, ma essere bianco, non vestirsi di nero, ma essere nero. Un caso speciale nel quale il bianco può uscire dalla sua condizione egemonica e indicare altro è precipuamente nell’alternanza con il nero: i polsini e il colletto bianchi in un abito nero (nello stile fetish è la dominatrix), le calze bianche su pantaloni e scarpe nere (come introdotte da M. Jackson, un dandy rock black), la canottiera bianca sul giubbotto di pelle nero (The Wild One – 1953, Marlon Brando)… Condizioni, dunque, che scompaginano il rigore, lo interrompono e a tratti lo disturbano. Il bianco deve iniziare a disturbare, perché, black matters – dove oggi più che mai, black è prima di tutto il colore della pelle.
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