Tutto quello che c’era da dire su Rocco Schiavone, il vicequestore romanissimo costretto per punizione a indagare fra le odiate nevi di Aosta nella fiction di Raidue, ormai non basta più. Mentre i giornali continuano a tesserne le lodi e sui social network non finiscono più di perdersi in elogi sperticati, soprattutto per Marco Giallini e la sua recitazione, le polemiche divampano più di prima, chiedendone addirittura la chiusura.
Lasciamo perdere le interpellanze di Gasparri e Giovanardi che come sempre fanno più danno che altro. Ma uno dei sindacati di polizia ha fatto sapere di aver appena redatto il calcolo degli anni di galera che si beccherebbe Rocco Schiavone, per tutti i reati commessi nel corso delle prime tre puntate: 28, addirittura, una vita dietro le sbarre. Una performance niente male per un tutore dell’ordine.
Quello che è difficile da spiegare è che in fondo hanno ragione tutt’e due. Lo sceneggiato ha battuto per la prima volta la concorrenza di Canale 5 (tre milioni e 800mila spettatori, e 15,01 di share contro il 14,77), raccogliendo non soltanto numeri inusitati per la rete, ma anche consensi euforici dal pubblico e dalla critica. In quei posti da maestri di sci e appassionati di alpinismo percorsi dalle bufere di neve, dove la cronaca nera si riduce alle vittime dei ghiacciai e a qualche gamba rotta, gli autori sono stati capaci di inventare una fiction di livello internazionale e di stile americano, con dialoghi finalmente reali e non noiosi e trame avvincenti, suggellando un personaggio di forte caratterizzazione, inventato dalla penna sapiente di Antonio Manzini, che si muove come un pesce fuor d’acqua col suo Loden e le sue Clarks sempre inzuppate, affondato nella nostalgia per la moglie morta e la sua Trastevere, rinfrescata dal Ponentino che annuncia la primavera e il risveglio della natura.
Ma Rocco Schiavone è soprattutto un poliziotto imperfetto, che non rispecchia per niente la figura di un tutore dell’ordine, un vicequestore politicamente scorretto che si fa le canne in ufficio e frequenta amici d’infanzia malviventi che lo aiutano a scassinare illegalmente le case degli imputati, quando non fermano addirittura un camion per rubargli il carico di droga.
Quello che non va giù alla Polizia è che sia proprio la Tv di Stato a dare visibilità e onore a questo personaggio un po’ troppo fuori dagli schemi: «Che senso ha andare nelle scuole alla mattina per insegnare ai ragazzi a non drogarsi», ci ha detto un dirigente della Questura di Torino, «se poi loro alla sera tornano a casa e vedono alla televisione uno che ci dovrebbe rappresentare che è il primo a farsi le canne in ufficio?».
Dal loro punto di vista, non hanno tutti i torti. Solo che, dall’altra parte, sulla televisione italiana è così difficile vedere una serie come questa, con bravi attori e un ottima sceneggiatura, che riusciamo anche a capire chi in fondo se ne innamora. Il fatto è che il segreto del suo successo è rappresentato proprio dalla figura contradditoria del poliziotto imperfetto e dalla sua originalità, da questo personaggio quasi scabroso – che se fosse stato un investigatore privato non avrebbe suscitato tutte queste accuse, tanto per intenderci -, inventato nei suoi gialli Sellerio dal genio di Antonio Manzini, che è un grande sceneggiatore («Come Dio comanda», di Salvatores), prestato al romanzo, come Andrea Camilleri, e come tutta una nuova schiera di narratori internazionali.
Rocco Schiavone è un uomo sconfitto e burbero, irriverente, a tratti fin troppo brusco, che insulta e deride i suoi sottoposti o gli tira addirittura le scatole di cartone addosso, spedendoli a casa «perché oggi hai pensato troppo, hai dato il meglio di te. Vattene via». Sfrutta la legge, ma non la rispetta, e continua a parlare con la moglie morta nella sua casa disperatamente vuota, con il vento dei fantasmi che scuote le tende delle finestre affacciate sui monti.
Marco Giallini è perfetto, con la sua barba lunga, gli occhi melanconici e l’accento romano per irridere e scansare. Gli assassini sono delle persone normali, proprio come accade tante volte nella realtà. Non c’è il solito buonismo zuccheroso delle fiction italiane, ma cinismo, quell’antico cinismo romano di chi ha già visto tutto da più di duemila anni e ha imparato a conviverci, intenerendosi ogni tanto di nascosto. Per la prima volta non ci sono metropoli e non c’è la mafia, non c’è il mare e nessun dialetto siciliano, ma una vecchia piccola città arroccata sotto i monti con tutto il suo freddo, e il buono non è sempre buono.
Il segreto di Rocco Schiavone e dei libri di Manzini è tutto qui, nell’aver inventato un personaggio credibile, anche con i suoi peccati a volte esagerati. Piace così tanto che lo ammirano pure i suoi rivali, come lo stesso Salvo Montalbano, che confessa di leggerlo in uno dei suoi gialli, «L’altro capo del filo».
Non c’è un superuomo, ma un perdente. «Io non amo la gente perfetta», diceva Boris Pasternak, «quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una vita spenta, senza alcun valore. Perché a loro non si è mai svelata la bellezza della vita».
E’ l’imperfezione il segreto del suo successo. Quando Sophia Loren prese l’Oscar per la Ciociara, il Times scrisse che «i suoi piedi sono troppo grandi, il suo naso troppo lungo. Ha il collo di una giraffa. Ha grosse mani. Ha la fronte bassa. La bocca grande. Mamma mia, è assolutamente splendida».