Per gentile concessione di #AIMagazine – The Art Review © di Domenico Russo
Mi piacerebbe mescolarmi all’enorme agglomerato scuro che si espande nei lavori di 108, al secolo Guido Bisagni (Alessandria, 1978). Forse sarebbe un rischio, ma vorrei immergere la mia mano oltre lo zero, per sentire al tatto il vuoto o il magma che si muove dentro. Triangoli mistici, cerchi perfetti, simboli talvolta alterati da una dominata invasione di forme colorate, spirituali quanto misteriose, queste opere sono figlie dell’arte intesa quale manifestazione del sacro. Ripudiare la figura, elemento cardine di qualunque street artist, è stata la decisione immediata e fondamentale di 108 a favore della pittura astratta, più adatta alla ricerca di una forma lontana da spazio e tempo.
R.108 lei vive la strada e lavora per le gallerie. I murales e le tele l’avvicinano quindi a un pubblico variegato, palesando una nuova commistione di street art e pittura astratta. L’inizio di ogni storia contiene sempre un nucleo di verità pronta a prendere forma o a esaurirsi su se stessa, a volte invece è un peccato originario a segnare indelebilmente un cammino. Vorrei che mi parlasse del principio, chi era 108 all’inizio?
108:«Sono nato ad Alessandria nel 1978. Ho sempre disegnato ma in una piccola città industriale l’interesse per le arti visuali era visto come un problema e incontrare i graffiti è stato un modo per fuggire. Nel ‘97 mi sono trasferito a Milano per studiare design al politecnico, ho conosciuto le avanguardie, i testi di Malevich e di Kandinsky, Arp e ho scoperto la mia passione per la forma pura. Ho eliminato lettere e figurazione e ho trasformato me stesso in una cifra impersonale. Non avevo mai visto nessuno farlo.»
La pittura può essere utilizzata come forma di resistenza più efficace del writing o altri linguaggi che, negli ultmi 30 anni, si sono imposti come innovativi diciamo anche contemporanei? La street art stessa è in una fase storica nuova, depauperata dello spirito oltranzista che l’ha vista nascere. Che ruolo pensa abbia ora nella nostra società?
«I graffiti, sono stati importanti per uscire da quel luogo e da quel periodo, ma ho sempre amato sperimentare. Il writing ha le sue leggi, è un mondo separato, se non si è iniziati è impossibile capire. Negli anni si è chiuso in se stesso e per certe cose più particolari è nata la parola: ‘street art’. Adesivi, poster, stencil, ecc… oggi si è commercializzato tutto e si è trasformata in muralismo low cost.»
Nei suoi lavori il nero è un varco denso, insondabile voragine di magma primordiale, un elegante strato di confluenza da cui si sprigionano contenute geometrie di colore. Sovrano di spazio e strato, il nero, quali simbologie nasconde?
«Le mie forme si sono sviluppate in luoghi abbandonati: mi serviva la semplicità, l’impatto. In oltre usare colori accesi in luoghi che per me avevano un fascino e una bellezza intrinseca enorme, era una mancanza di rispetto.
Dipingere forme astratte e nere in quel periodo era il mio manifesto. Ho eretto un muro tra me e gli altri: io sono 108 e non sono un decoratore. Ho sempre trovato l’idea che fare arte volesse dire riqualificare deprimente. Il nero poi contiene tutti i colori, preziosissimi.»
L’ ‘oscuro’, concetto astratto in grado di definire uno stato d’animo, un pensiero, un ambiente, una persona, ha a che vedere col suo lavoro?
«Non sono una persona troppo solare diciamo e sono affascinato dal concetto di ‘parte oscura’ di Jung. Mi piace cercare di esplorare le zone nascoste, nel mondo, nel tempo o nella nostra mente. Però l’oscurità, non è un simbolo negativo per me: è un simbolo di introspezione e di distinzione, contro la superficialità.»
I suoi lavori sembrano spesso luoghi, varchi spaziali, simili a zone parallele alla nostra realtà dove non si sa se è bene o meno entrarci. Delle volte appaiono, invece, come macchie residuali delle nostre coscienze contemporanee. Che rapporto ha con la città e che tipo d’interazione cerca con i cittadini?
«Questa descrizione è perfetta. Amo osservare cose a cui nessuno fa caso. Vagando per anni in luoghi dimenticati si impara a conoscere la città in un modo più profondo.
Lavoro per me stesso ma mi interessa l’interazione con i cittadini: ad esempio quando cercano di rendere il mio lavoro più comprensibile ai loro occhi, magari aggiungendo delle facce alle forme. è li che penso di avere raggiunto il loro inconscio.»
Quali sono le sue influenze, la musica che ascolta e il cinema che preferisce?
«Ascolto di tutto: sono cresciuto con il punk-hardcore per poi andare verso le cose più strane. I miei ascolti vanno dal post-punk a Kalus Schulze a Bach. Ho una passione per il rumore: industrial, noise, come lo vogliamo chiamare: Russolo, Throbbing Gristle, Maurizio Bianchi, roba giapponese. Il film Decoder è stato una grande influenza per me, anche per l’idea di fare arte (visuale, sonora…) in pubblico. Il cinema è forse la forma d’arte più completa: il Casanova di Fellini, Stalker di Tarkovsky, il Pasto nudo di Cronenberg e centinaia di altri. Mentre lavoro guardo/sento molti documentari.»
Ultimamente è stato all’estero, in che luoghi ha lavorato e che realtà ha incontrato?
«Sono affezionato a tutti i luoghi in cui sono stato, alle persone che ho conosciuto, ma mi sento profondamente Europeo anche in questo periodo di decadenza . Mi piace trovare luoghi in cui ancora sopravvive il suo spirito, penso all’Europa centrale e orientale. Per lo stesso motivo forse amo anche l’Asia, in effetti si tratta dello stesso continente.»
108, cosa rappresenta questo numero?
«108 è un numero sacro. Magico. Quando decisi di utilizzare un numero al posto di un nome stavo leggendo libri della cultura indù e avevo (ho) sempre con me un mala composto da 108 palline. è un numero importante per induisti e buddisti, ma lo era anche nella Grecia antica. Per me simboleggia un po’ il ruolo spirituale dell’arte ed è per quello che non l’ho ancora cambiato.»
Fonte:
#AImagazine, Fall 2016 n74, Greta Books (Greta Edizioni)
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