Ho voluto attendere prima di cedere al primo istinto e raffreddare il giudizio per cercare ragioni che la mia debole mente non trovava. Niente da fare, nisba, un progetto cretino con dei lampi di imbecillità, per dirla alla Marinetti. Già al primo impatto una metaforica orticaria ha cominciato a manifestarsi alla vista di Green light-An artistic workshop di Olafur Eliasson. Il progetto -in collaborazione con Emergency e la Georg Danzer House di Vienna, con la benedizione della Prefettura e del Comune di Venezia- prevede che ottanta tra richiedenti asilo e rifugiati, naturalmente su base volontaria e con solo rimborso spese, assemblino per tutta la durata dell’esposizione le lampade Green light, kit progettato dall’artista, poste in vendita a 250 euro per finanziare altri progetti delle due Ong. Niente da fare, c’avimm a rassegnà, questo è il mood che pervade il contemporary e la Biennale tutta, non solo il concept di Christine Macel.
Ma passiamo al piatto forte, almeno sulla carta, del progetto della curatrice: “otium e negotium. Tesi e antitesi”. Sintesi? lasuma perder, neh!
Nessun fil rouge collega le opere degli artisti invitati e tantomeno queste ad un progetto che prevedeva il ritorno alla figura dell’artista ed il suo porsi dinnanzi alla pratica del fare arte. Nessuna trama a formare un tessuto, visto che di ricami tanto si parla in questa Biennale, solo cacofoniche presenze. A meno che non si vada in solluchero per Katherine Núñez e Issay Rodriguez from Philippines e le loro pratiche meditative e domestiche all’uncinetto.
Il pregio maggiore dell’ex padiglione italiano ai giardini è che ci ruba poco tempo. Il lavoro si svolge veloce come il “Luca Fapresto”. Raffinati i dipinti di piccolo formato del cinese Liu Ye che raffigura libri coniugando pratiche occidentali e mistero orientale, bello il video del russo Taus Makhacheva nel quale un funambolo con sprezzo del pericolo trasporta sessantun opere -copie di opere d’arte provenienti dal Museo del Daghestan- da una montagna ad un’altra sospeso su di un notevole e suggestivo baratro. Non rende giustizia all’artista la sala dedicata a Raymond Hains e di Philippe Parreno ricordiamo trovate migliori.
E tutto il resto è… non lo dico.
Finiti i giardini “or incominciano le dolenti note a farmisi sentire.” Alle Fattorie, pardon, le Corderie dove Osellano le aquile! Qui si oscilla tra l’effetto expo etnico con tendenza artigianato e la solita pippa per cui qualsivoglia bambù, tamburello, tessuto, nenia assurge a testimonianza culturale in opposizione al dominio colonial-imperialista. Se poi l’oppressione è documentata da riferimenti autobiografico-ombelicali siamo all’apoteosi. Bingo, chef d’oeuvre!
Tutti a lagnarsi di questo porco mondo ricco popolato però da fancazzisti che spendono una bella fetta di tempo a seguire le peripezie di questi presunti eroi.
Si passa dal taiwanese Lee Mingwei, che trasforma una banale operazione di cucito e rammendo in narrazione emotivamente significativa -auguri- a Thu Van Tran, vietnamita naturalizzata francese che, cito da scheda, “solleva interrogativi sulla gomma dal punto di vista sensoriale e storico, …simbolo di oppressione e dominazione culturale”. Sorvolo magicamente sullo spazio sciamano ed il padiglione dionisiaco e mi astengo circa le stars Kader Attia, Anri Sala e Gabriel Orozco. Dispersa in questo souk la presenza mediocre di Giorgio Griffa, appese in un angolo le opere di Riccardo Guarneri che non erano neanche allineate ed “in bolla.” Belli i lavori di Maria Lai che riscattano poeticamente il quotidiano femminile, specie i libri, meno interessanti i lavori a parete la cui datazione molto tarda ne oscura l’originalità. Certo il contesto rischia di accentuarne la componente artigianale, indubbiamente presente, a scapito di quella lirica. Rimangono comunque una delle cose migliori in questa fiera delle Corderie.
E ora, velocemente, alcuni padiglioni nazionali. Quello degli USA con Mark Bradford che, al netto della lagna engagé, presenta dei bei lavori. My Horizon di Tracey Moffatt per il padiglione australiano presenta un bel video che non ci risparmia la solfa migratoria. Il Leone d’oro ad Anne Imhof per la Germania, confesso di non averlo visto. L’Io ch’entro mi rugge mi ha proibito di spendere un’ora della mia vita nell’attesa di potere accedere alla visione. Mi fido degli entusiastici giudizi. Infine, last but not least, l’Italia.
Ne dicono tutti un gran bene,“finalmente all’altezza di una sfida com’è quella della Biennale!” dicitur. Mi accodo, “Io non sentito barzellete, ma da come tu ridi io penso bele” (dal mitico Holliwood Party). Il mondo magico a cura di Cecilia Alemani presenta le opere di Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey. Un lavoro complesso, concetto sul quale si insiste molto, nelle schede e nei testi.
Sfugge un poco l’estetica del nuovo materialismo tecnologico ed il rapporto con il testo dell’Imitatio Christi, libro di devozione cristiana del basso medioevo. Ma tant’è Robero Cuoghi questo dice a giustificazione della sua installazione a metà tra il forno da pizzeria ed il laboratorio di Frankenstein Junior che sforna corpi deposti lungo un percorso asettico tipo laboratorio di ricerca. Si garantisce che la produzione non si esaurisce con l’apertura della mostra, ma perdura secondo una logica di decomposizione e composizione, morte e rigenerazione. L’intero processo è concepito per produrre una dissociazione che riguarda il nostro presente. Benissimo.
Giorgio Andreotta Calò predispone un’imponente istallazione di tubi da ponteggio che dividono lo spazio in due livelli, de ura e de uta, sotto e sopra. Alla fine dello spazio una scalinata permette l’accesso de uta dove attende il visitatore una vasta distesa d’acqua che si estende su tutta l’installazione. Il soffitto si riflette e si ribalta nell’acqua creando così un’incredibile visione spiazzante di cui l’ignaro spettatore entra a far parte riflettendosi a sua volta in uno specchio posto all’estremità dello spazio. Insomma, non si capisce chiù nenti e tutto si sdoppia… il cielo in una stanza.
La Seduta è il titolo del video di Adelita Husni-Bey. Il tono è perentorio, cribbio. Naturalmente affronta tematiche complesse come razza, genere e classe. Un workshop sperimentale tra l’educativo e l’acting out. Confesso, non ho resistito a lungo.
Tra le infinite proposte che la laguna offre in concomitanza della Biennale, una tappa alla Fondazione Prada è d’obbligo. “The Boat is Leaking. The Capitan Lied.” Il progetto è il risultato di un confronto tra lo scrittore e regista Alexander Kluge, l’artista Thomas Demand, la scenografa e costumista Anna Viebrock e il curatore Udo Kittelmann. L’incontro tra le personalità e le discipline di riferimento da luogo ad un’atmosfera enigmatica ed affascinante, una sorta di malinconia tutta tedesca pervade gli spazi e l’animo del visitatore.
Per chi ama la pittura vale il colpo la mostra di Mark Tobey alla Guggenheim, ghiotta occasione per riconsiderare la pittura americana del secondo dopoguerra. Non da meno, e nel solco dell’altra, l’esposizione di Phillip Guston all’Accademia. Finalmente si respira!
Infine, avendo fiato e gambe, tutti da Pinault di Pinault. Sia a Palazzo Grassi che a Punta della Dogana. Un fantastico e controverso Damiem Hirst vi condurrà in uno stupefacente viaggio da pirati dei Caraibi, meno superficiale di quel che può apparire a prima vista. Chapeau!
Lagunari saluti
L.d.R.