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Misteri, apparizioni, morte. I Coniugi Arnolfini di van Eyck riletti da Jean-Philippe Postel

Jan van Eyck, I Coniugi Arnolfini, 1434 skira libri
Jan van Eyck, I Coniugi Arnolfini, 1434
Jan van Eyck, I Coniugi Arnolfini, 1434 (particolare)

Se puoi vedere guarda.
Se puoi guardare osserva.

José Saramago, Cecità

Londra, National Gallery, Sala 56. Una tavola di quercia dipinta a olio, datata 1434, di dimensioni 84,5×62,5 cm, è esposta dal 1843 nel museo londinese e cattura lo sguardo di chiunque si imbatte in essa.

Jan van Eyck, I Coniugi Arnolfini, 1434 skira libri

«Come Jean-Philippe Postel, anch’io conosco gli Arnolfini. Meno intimamente di lui, certo, ma li conosco. Li ho incontrati un pomeriggio di giugno alla National Gallery. Da allora non mi hanno più lasciato. Quando penso a loro è questa assenza di sguardo che s’impone all’istante. Nel mio ricordo, tutta la tela si organizza attorno a questi sguardi che non s’incrociano. E, quindi, cosa vedono queste due solitudini?» (Daniel Pennac)

Hernoul-le-Fin con la moglie. Così recita la prima descrizione nota del dipinto. Poche certezze e nessun indizio che ci dica che il titolo sia stato dato dal pittore in persona. Ci sono solo un uomo e una donna, in piedi, in una camera da letto, che si danno la mano l’un l’altra. Di sicuro benestanti, ce lo dicono gli arredi della stanza, ma non parte dei grandi di questo mondo altrimenti conosceremmo con certezza la loro identità. I Coniugi Arnolfini… di chi stiamo parlando? Di una ricchissima famiglia di mercanti italiani originari di Lucca. Il loro nome è legato al dipinto dal 1857. In quell’anno, due storici dell’arte, sulla base dell’assonanza tra Hernoul-le-Fin e Arnolfini, individuarono il soggetto del quadro con una parte della famiglia italiana. Da qui, l’identificazione dell’uomo con Giovanni di Nicolao Arnolfini e la donna con la moglie, Costanza Trenta. Un problema: la moglie, all’epoca della rappresentazione, era già morta e sepolta. Vexata quaestio, il dibattito è tutt’ora aperto.

«Il dipinto è arcinoto; chiunque l’abbia avuto sotto gli occhi anche solo una volta se ne ricorda. Ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro. Ma, checché si sia detto al riguardo, un mistero resta ancora irrisolto: ci troviamo, contemplandolo, nella situazione del letto di un romanzo giallo al quale manca l’ultimo capitolo. Ci attira, ci magnetizza, si potrebbe quasi dire che ci chiami, ma abbiamo un bel guardare, non ci vediamo niente, o, piuttosto, vediamo che c’è qualcosa da vedere, ma non capiamo cosa. Non cogliamo il nocciolo. Il senso ci sfugge. Arrangiatevi con questo, ci dicono l’uomo e la donna che da più di centocinquant’anni chiamiamo I Coniugi Arnolfini». (Jean-Philippe Postel)

Unica certezza: il dipinto è stato oggetto di un avvicendarsi di ipotesi. Ma seguiamo il consiglio di Postel che ci suggerisce di guardarlo: «un’ultima volta con gli occhi dell’innocenza prima che si palesi infine la sua oscura verità». Qual è questa misteriosa verità “made in France”? Fidiamoci esclusivamente della nostra vista: ci sono un uomo che veste di nero e una donna che veste invece colori leggiadri quali l’azzurro, il verde e il bianco, intenti a darsi la mano. Nessuna ulteriore certezza riguardo al rapporto che intercorre tra i due. La donna poggia la mano libera sul ventre, una posa che suggerisce uno stato interessante…

Uno specchio sulla parete di fondo della stanza attira il nostro sguardo… riflette i due protagonisti. Un occhio più attento può notare riflesse anche le sagome di due minuscoli personaggi che occupano il posto sulla soglia, quello che per tradizione spetta all’osservatore esterno al dipinto. Tornando alla scena in primo piano, quelle mani che si toccano suggeriscono un giuramento in atto. La donna non ha occhi che per quella mano dell’uomo sollevata mentre presta giuramento. Si crea uno spazio ritagliato nel quale si concentra tutta la scena.

Jan van Eyck, I Coniugi Arnolfini, 1434

Un cagnolino ci guarda. L’unico di cui possiamo incrociare lo sguardo. Ma lo perdiamo nello specchio nel quale non è riflesso. Cosicché le due scene, quella della camera –che possiamo definire una “prima finzione”– e quella dello specchio –una finzione alla “seconda potenza”–, non sono perfettamente sovrapponibili. Sorge il dubbio: il cagnolino è reale o è un’apparizione? La situazione si complica ulteriormente quando ci si rende conto che non è solo la figura dell’animale a lasciare perplessi: il confronto con lo specchio produce diverse anomalie ed enigmi. L’incrocio delle mani non è visibile, ci appare coperto da una macchia nera che se ne diparte fin dietro al vestito dell’uomo; inoltre, il viso della donna non è ritratto, si scorge solo il velo, sotto il quale: il nulla.

Postel tenta di sbrogliare la matassa di dubbi raccontando un fatto alquanto suggestivo. Leggendo una raccolta di aneddoti fantastici riunita da Charles Nodier, pubblicata a Parigi nel 1822 con il titolo Infernaliana, il medico francese legge L’avventura della Zia Melantone di Filippo Melantone (1497-1560). La breve storia racconta di una zia che «[…] avendo perduto il marito in tempo ch’era gravida, e quasi vicina al parto, vide un giorno sul far della sera due persone entrare in sua casa, una delle quali aveva la figura del suo morto marito». Il marito:

«[…] la pregò di far dire alcune Messe in sollievo della sua anima, e la obbligò a dargli la mano, del che facendo ella difficoltà, l’assicurò, che non ne avrebbe alcun male. Ella diede la mano, e la ritirò senza sentire verun dolore, ma l’ebbe poi tutta sua vita arsiccia e nera».

La donna in questione è una revenante. Uno spettro, un fantasma… un’apparizione. Questa donna, ben vestita, accompagnata da un cagnolino fantasma, è tornata dall’oltretomba per tormentare il marito in vita. «È morta. La sua anima si consuma tra le fiamme del Purgatorio. Non ha più alcuna realtà carnale ed eccola tornare sulla terra e apparire all’uomo terrorizzato per strappargli la promessa che in effetti le sta facendo, con la mano destra alzata nell’atto del giuramento» (Postel). Alla fine del giuramento, il marito in lutto, come sottolineano le vesti, ritrarrà la mano e la troverà segnata da bruciature, poiché i revenants infiammano le cose che toccano essendo tormentati dal fuoco nel corpo.

Forse tutto sta nello specchio, mentre tutto il resto è illusione. Quello che appare come un opulento interno fiammingo degli anni Trenta del Quattrocento, ricco di elementi verosimili, si trasfigura in spazio fittizio nel momento in cui irrompe l’apparizione.

Alcuni dettagli: vita versus morte. Una candela curiosamente accesa in pieno giorno, che sarebbe collocata per simboleggiare il carattere effimero della vita umana, si trova proprio sopra l’uomo, mentre sopra il capo della donna si percepiscono alcune tracce di cera di una candela che ora non c’è più. Lo specchio e la sua cornice: dieci piccoli medaglioni raffigurano le scene della Passione. I medaglioni dalla parte dell’uomo rappresentano le scene in cui il figlio di Dio è vivo, mentre dalla parte della donna quelle in cui è morto; eccetto un unico medaglione quello del Cristo resuscitato che lascerebbe presagire una possibilità di salvezza anche per la donna. La donna spunta da un fondo uniformemente rosso, un rosso profondo che qui rappresenta le fiamme del purgatorio da dove lei viene e dove presto dovrà fare ritorno. L’uomo è, al contrario, illuminato dalla luce del giorno che entra dalla finestra dietro la sua figura; luce è vita. Alle spalle della donna un rosario, ci suggerisce che sta aspettando che il marito preghi per la salvezza della sua anima.

Jan van Eyck, I Coniugi Arnolfini, 1434

Una donna che risale dalle fiamme, vestita con i colori della speranza è venuta a trovare il marito, in compagnia di un cagnolino simbolo di una fedeltà che sopravvive alla morte. Lui giura di soddisfare le sue richieste. Invertendo i pronomi de L’avventura della zia Melantone, tutto quadra.

È il diario di un’apparizione. Ma Postel non si ferma a questa soluzione, continua su sabbie mobili ad azzardare ipotesi, sulla base di assonanze iconografiche con altre opere del pittore olandese. Potrebbero essere Van Eyck e la moglie Margaretha, e tutto si trasformerebbe in un racconto autobiografico. Nelle ultime pagine, si propende per questa ipotesi tuttavia l’autore è consapevole della difficoltà che incontrano le sue tesi siccome: «i personaggi dipinti da Van Eyck non diranno niente di più».

«Dalla soglia riflessa in fondo allo specchio, due personaggi contemplano come noi la scena, l’uno vestito di rosso, l’altro di azzurro. Vedono quello che vediamo noi e simultaneamente quello che Jan non ha potuto dipingere e che noi non vediamo: il volto vero dell’uomo, la sua mano che brucia, il fumo nella camera. Dal loro atteggiamento si direbbe che sono saliti in tutta fretta. È stato l’odore di bruciato ad attirarli in questa stanza? Un grido sfuggito all’uomo quando gli è apparsa la donna? Dobbiamo per forza porci la domanda, anche se è banale, anche se deve restare senza risposta. Dobbiamo per forza fare appello ad altri sensi invece che fermarci alla nostra vista ingannatrice o ingannata. L’uomo ha appena alzato la mano destra in un gesto di giuramento, la donna guarda questa mano alzata… e il tempo si ferma. Immobilizzato da quasi sei secoli. È come un sogno questo dipinto. Un sogno di Van Eyck. Il sogno di un’apparizione». (Postel)

Informazioni utili

Jean-Philippe Postel, Il mistero Arnolfini (Skira)
Indagine su un dipinto di Van Eyck, prefazione di Daniel Pennac

2017, 128 pagine, €16,00

www.skira.net

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