Dopo le accurate mostre di studio sui Macchiaioli, il Centro Matteucci ospita un’antologica sull’arte italiana da Casorati a De Pisis, Boccioni e De Chirico. A cura di Susanna Ragionieri, fino al 25 settembre 2017. www.cemamo.it
Viareggio (Lucca). Affievolitosi fra il XVIII e il primo XIX Secolo, il pensiero artistico italiano riprese vigore attorno al 1860, con la rivoluzione della Macchia che superò lo storicismo accademico. Con Il Secolo Breve. Tessere di ‘900, il Centro Matteucci per l’Arte Moderna riprende là dove aveva lasciato, continuando il racconto a partire dall’ultimo scorcio di Ottocento – quando, superati i Macchiaioli, si fanno strada il Divisionismo e il Simbolismo -, per terminare alla metà del secolo, con il De Chirico della maturità. Sei decenni che furono teatro di cambiamenti così numerosi e così epocali, di cui l’Europa non aveva mai conosciuto l’eguale: la politica, il costume, la morale, il campo della conoscenza scientifica, tutto è uscito radicalmente trasformato negli anni dal 1890 al 1920, per poi continuare su quella china a un ritmo vertiginoso. Si parlò del “dèmone della modernità”, un’ebbrezza all’apparenza inspiegabile che annoverava impeti di violenza distruttrice, un estetismo esasperato, le prime avvisaglie della libertinismo sessuale, lo sviluppo industriale su larga scala. La millenaria civiltà europea legata al mondo rurale ne fu scioccata, e pochi intellettuali colsero il dramma che si stava preparando, all’interno di un clima politico sempre più votato al nazionalismo. Fra questi Friedrich Nietzsche ed Emile Zola.
All’interno dell’arte europea del periodo preso in esame, l’Italia ha ricoperto un ruolo di primo piano, grazie allo sviluppo di movimenti di rottura come il Futurismo e la Metafisica, affrontati con competenza dalla mostra viareggina, che non segue un criterio cronologico ma, più saggiamente, è articolata in sezioni, alcune delle quali necessariamente generiche – ad esempio quella dedicata al confronto con altri linguaggi europei -, e altre più specifiche, come quelle dedicate al Futurismo e a De Chirico. Sezioni non troppo vaste, utili a illustrare senza sovraccaricare. Il percorso prende le mosse dal primo Novecento, nel momento del passaggio dal Divisionismo al Simbolismo; splende ancora la Belle Époque, e l’Italia sconvolta dal regicidio affronta il nuovo secolo all’insegna di un vivace clima di lotte sociali, conseguenza della nascita del proletariato di fabbrica.
Anche l’orizzonte artistico è inquieto, dall’Europa del Nord soffia il vento simbolista, gravido di rimandi psicologici e metafore ferine; ne è un valido esempio La piovra (1914) di Cesare Saccaggi, dove la figura femminile dallo splendido corpo ma dallo sguardo allucinato, potrebbe essere in realtà un mostro marino, forse la metafora di una Belle Époque che sta per trasformarsi in tragedia. Dal Divisionismo classico di Caputi, si passa alle innovazioni di Umberto Boccioni, (prima del passaggio al Futurismo), che anticipano attraverso la pennellata quel dinamismo della materia che poi Balla svilupperà appieno.
All’inizio del Novecento, Parigi, è la capitale della modernità artistica, e sono molti gli artisti che vi guardano, o che addirittura vi si recano di persona, per respirare quel clima d’innovazione, ma non solo. Lorenzo Viani, nel suo Nudo di schiena (1910) si rifà alla lezione di Toulouse-Lautrec e Modigliani, per il tratto essenziale e carnale insieme, e la posa intima di sbieco. Mario Cavaglieri, esponente di un realismo psicologico, attinge alle mannequins parigine, e ne fa icone di una femminilità sempre più decisa a farsi spazio nella società patriarcale. Pitture da cui emergono atmosfere vicine al romanzo sociale francese di Emile Zola, ma anche alle ben più sensuali pagine di Gabriele D’Annunzio.
Passata la tragedia della Grande Guerra, conclusasi per l’Italia con un’ambigua vittoria, e instauratosi il Fascismo al potere, la scena artistica nazionale non ne risentì in maniera particolare, restando pressoché invariato il clima di vivacità creativa. In particolare, in toscana i pittori Oscar Ghiglia, Llewelyn Lloyd e Moses Levy, di formazione macchiaiola, proseguono negli anni Venti il loro percorso nel solco della tradizione, rifacendosi a Van Gogh, Cézanne e Fattori, e che, in un certo senso, risponde all’appello per il “ritorno all’ordine”. Una tavolozza luminosa caratterizza questi pittori, assieme a un rigorismo formale che precorre il “realismo magico” di Alfredo Serri. La fase più tarda di questi pittori è solitamente poco nota, ed è un merito della curatela aver scelto queste opere, ponendosi al di fuori della vulgata. Così come poco note sono le tele futuriste di Thayant e Prampolini, assidui sperimentatori dell’arte meccanica e dell’aeropittura. Calmati gli ardori interventisti nelle trincee del Carso, gli aderenti al Futurismo che sopravvissero non persero tuttavia il loro slancio per la modernità, per la tecnologia e, in definitiva, un certo culto del Superuomo, come dimostra il loro consenso al Fascismo. Eredità importante di questa sperimentazione, che cerca di portare la pittura al di là del limite della tela, sarà l’arte concettuale italiana che avrà in Fontana, Burri e Scheggi gli esponenti più illustri.
Accanto alle esperienze d’avanguardia, permangono le ricerche formali su tematiche classiche, come la natura morta, che negli anni Venti vedono attivi Filippo De Pisis, e Giorgio De Chirico, che ne fanno un mezzo espressivo metafisico. Attraverso una tavolozza luminosa, realista e appena romantica, che va oltre il dato oggettivo e suggerisce le sensazioni che vi stanno dietro: profumi, rituali di caccia (De Chirico, Natura morta con fagiani), memorie personali e impressioni intime (De Pisis, Natura morta con conchiglie).
Un posto di rilievo lo occupa la pittura di paesaggio, che in Italia vanta numerose scuole: da quella toscana di ascendente primitivo, a quella dei Macchiaioli, dal vedutismo veneto al paesaggismo meridionale di ascendente orientale. Le declinazioni moderne sono molteplici, e a Viareggio è possibile ammirare l’asciuttezza di Ottone Rosai, che nel cipresso il simbolo toscano per eccellenza, e comunica tutta l’asprezza ancestrale del lavoro campestre. Essenzialità che emerge anche dalla Giudecca (1928) di Virgilio Guidi, che supera il naturalismo e sospende Venezia in un’atmosfera di immobilità eterna.
Non meno interessante l’osservazione dell’adattamento al clima del Secondo Dopoguerra da parte di conclamati maestri quali, fra gli altri, Casorati, Gentilini e Severini. Il primo mantenne un deciso ascetismo formale, Gentilini percorse invece interessanti sentieri di raffinata pittura dal sapore fiabesco, mentre Severini tornò alla stagione delle avanguardie storiche, con nature morte di ispirazione cubista.
La chiusura, sobria e suggestiva insieme, è lasciata a due tele di De Chirico, l’Autoritratto come pittore in costume del Settecento (1957) e Il consolatore (1968); il primo è un esempio di arte post-moderna, che combina elementi di epoche diverse, in un collage temporale con citazioni da Jacques-Luois David e dal suo stesso studio (la testa di Minerva). Ne risulta una realtà “impossibile”, carica di colti orpelli che anticipa le manipolazioni fotografiche, ad esempio, di Robert Mapplethorpe. Il consolatore appartiene invece alla neometafisica, sorta di ritorno alle origini che caratterizzò l’ultima fase di De Chirico; in una stanza che sembra una piazza cittadina, sono presenti tutti gli stilemi degli esordi, e nell’Italia di quegli anni, appare davvero profetica.
Con De Chirico si conclude una mostra piacevole e intelligente, capace di guidare il visitatore nei meandri meno conosciuti del Novecento italiano, che fu una stagione creativa molto vivace, caratterizzata da spunti originali, ma che seppe anche mantenere un costante dialogo con le esperienze europee.
Tutte le informazioni: http://www.cemamo.it/