120 battiti al minuto, al cinema dal 5 ottobre. La recensione. Un esercito di attivismo contro l’AIDS.
Agli inizi degli anni ’90 poco o nulla si è fatto per sensibilizzare circa il tema dell’AIDS e meno ancora per prevenirne la diffusione: le informazioni ufficiali sono laconiche e la malattia è percepita come uno stigma, a causa della sua propagazione anche tramite rapporti sessuali e la sua apparente incidenza soprattutto in categorie definite a rischio.
A livello globale questo genera confusione, sospetto, ignoranza e pregiudizio: in America non basta il coraggio di una popstar internazionale come Madonna, che nel suo album “Like A Prayer” – del 1989 – allega un opuscolo contenente una specifica sui principali veicoli di infezione e un invito all’utilizzo preventivo del preservativo. In Inghilterra, nel 1991, non serve una morte mediaticamente fragorosa come quella di Freddie Mercury. In Italia l’inquietante campagna voluta dal Ministero della Sanità, il cui slogan è “AIDS se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”, ha un sapore più terroristico che istruttivo.
Uno scenario desolante, acuito dalla politica Vaticana circa l’utilizzo del profilattico e dall’atteggiamento internazionale delle case farmaceutiche, ambigue nel diffondere dati e risultati così come nello stabilire i parametri di accesso alle cure.
>> 120 Battiti al minuto vuol raccontare la Francia di quel tempo: nella filiale parigina di ACT UP (AIDS Coalition to Unleash Power), l’associazione fondata a New York nel 1987 per rompere il silenzio generale sui numeri della diffusione della malattia, si tenta di sensibilizzare sia la popolazione sia lo Stato circa le reali cause di questa epidemia ricorrendo ad azioni clamorose.
L’obiettivo è educare e informare la gente comune, spingere il governo a iniziative concrete di prevenzione o tutela di quanti hanno contratto il virus dell’HIV e costringere l’industria del farmaco a una politica che abbia come primo interesse la salute dell’individuo, non il proprio tornaconto.
Il bel Nathan (Arnaud Valois) si unisce con entusiasmo al movimento e, molto velocemente, si lega al giovane Sean (Nahuel Pérez Biscayart) uno dei più estremisti tra gli attivisti: che quest’ultimo sia sieropositivo, a differenza del primo, pare non rappresentare un problema. Anzi, la situazione sembra unirli ancora di più creando un’intimità diversa e maggiormente responsabile nella coppia.
Le riunioni e le operazioni di ACT UP si fanno sempre più rumorose: se da un lato gli aderenti al gruppo iniziano a prefiggersi traguardi davvero ambiziosi, specie mano mano che peggiorano le condizioni dei malati al suo interno, dall’altro l’eco delle loro imprese inizia a sortire un qualche effetto. Ma tutto questo, improvvisamente, non sembra interessare Sean come un tempo: ha infatti iniziato a lottare con un nemico, la paura, verso cui non riesce a utilizzare l’arma dell’impertinenza che lo ha spesso contraddistinto.Il pluripremiato film di Robin Campillo, insignito del Grand Prix, del Premio Fipresci della critica internazionale e della Queer Palm a Cannes e scelto per rappresentare la Francia alla corsa verso gli Oscar 2018, ha il raro pregio di raccontare con uno stile estremamente naturale una lotta per la vita a partire dal basso.
Ognuno dei personaggi ritratti dal regista ha la propria vicenda personale che lo ha portato a diventare un attivista, ma nell’illustrarla non si scivola mai nel patetico o nel retorico: prova ne sono Sophie (), la giovane volitiva sempre in prima fila per difendere i suoi ideali, Thibault (Antoine Reinartz) a cui spetta l’onore e l’onore di presiedere l’ACT UP, il giovanissimo Marco (Théophile Ray) accompagnato dall’indomita madre Hélène (Catherine Vinatier).
L’intero cast, un riuscitissimo mix di attori professionisti, debuttanti assoluti e artisti provenienti da altri mondi lontani dal cinema, regala una prova corale commovente nella sua apparente spontaneità: che si tratti di dar corpo al giusto desiderio di vivere nonostante tutto, tipico degli adolescenti, o a certe dinamiche associative che, per forza di cose, portano allo scontro personale a discapito del nobile obiettivo.Un montaggio meravigliosamente studiato e una colonna sonora dance volutamente anni ’90, al cui ritmo si riferisce il titolo, valorizzano le storie di questi coraggiosi ragazzi che hanno deciso personalmente di cambiare non solo il proprio futuro ma quello dell’intera umanità.
Sebbene verso la fine della pellicola la vicenda personale rischi di cannibalizzare un minimo l’efficace registro collettivo sinora utilizzato, basta un’intelligente escamotage narrativo per rimettere il dramma privato al servizio dell’ennesima operazione dimostrativa: del resto, oggi come ieri, Jimmy Somerville ci suggerisce con il suo indimenticabile verso “you never cried to them, just to your soul” che indugiare nel pianto non ha senso.