Pittore “maledetto” simbolo di un’epoca, immortalò il fasto e l’abiezione della Parigi di fine Ottocento, anticipando l’angoscia estetica e concettuale dell’Espressionismo. Una mostra lo celebra a Palazzo Reale, in collaborazione con il Musée Toulouse-Lautrec di Albi. Fino al 18 febbraio 2018. http://www.toulouselautrecmilano.it
Milano. «Siamo brutti, ma la vita è bella». Con questa frase sardonica e lapidaria, Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901) sintetizzò le contraddizioni di un’epoca scintillante e insieme sordida, il cui ottimismo che sfiorava l’ottusità impedì di cogliere le avvisaglie delle tragedie del secolo successivo. A caratterizzare la Belle Époque non furono soltanto lo champagne, il Moulin Rouge, il can can, le ballerine dai costumi scintillanti e le gambe sinuose; questo fu soltanto il lato edonistico di un periodo che vide l’Europa a una svolta cruciale della sua storia, incalzata da un lato dal progresso tecnologico e scientifico – sono di questo periodo, ad esempio, le teorie di fisica quantistica di Max Planck che apriranno la strada alla teoria della relatività di Einstein, così come l’automobile, i cibi in scatola, il telefono -, e da un clima politico particolarmente teso dall’altro, con un viscerale antisemitismo riacutizzato dall’affaire Dreyfus, un feroce colonialismo che assoggettava Asia e Africa, e le secolari inimicizie dei grandi Imperi che ridava fuoco alle polveri nella regione balcanica. L’ebbrezza nazionalista, unita alla fiducia nella scienza, fa sembrare formidabili quegli anni, e Parigi, capitale della cultura, era al centro di importanti fenomeni di progresso tecnico-artistico: qui nacque il cinema, si sviluppò la metropolitana, si costruì la Tour Eiffel, e nel 1889 si tenne l’Esposizione Universale che richiamò decine di migliaia di visitatori. Il progresso si accompagnava alla joie de vivre, che trovava sfogo nei café-chantant, nei tabarin, nei teatri, mentre nei suoi quartieri più poveri la città viveva infestata dall’alcolismo e dalla sifilide, e scrittori come Émile Zola e Honoré de Balzac ce ne hanno lasciate accurate testimonianze.
Se già artisti come Renoir, Manet, Degas, si erano avvicinati all’ambigua sensualità della Belle Époque, il conte albigese Henri de Toulouse-Lautrec – rampollo di una delle più nobili e antiche famiglie francesi -, portò nella pittura di fine Ottocento uno sguardo psicologico e sociale fortemente innovativo; Il mondo fuggevole di Toulouse-Lautrec curata da Danièle Devynck e Claudia Beltramo Ceppi Zevi, racconta l’avventura artistica di colui che fu l’outsider della Belle Èpoque, attraverso una selezione di 35 dipinti, la serie completa dei 22 manifesti, oltre a litografie, acqueforti e affiches, opere caratterizzate da una straordinaria modernità stilistica e concettuale, da uno sguardo umile e curioso verso l’esterno, senza pregiudizi né ipocrisie. Nonostante i quarti nobiltà, Lautrec non ebbe una vita facile: due cadute da cavallo gli causarono la rottura e la deformazione dei femori, con conseguente arresto della crescita degli arti inferiori. A ciò si aggiunse una salute cagionevole, che incupì viepiù un carattere già di per sé non molto espansivo, stanti anche le freddezze degli affetti familiari, a esclusione della madre, che gli fu vicina fino all’ultimo. Una vita sregolata fece il resto, così da portarlo alla prematura scomparsa nel 1901, poco prima di compiere trentotto anni. Una vita breve ma intensa, solitaria e mondana insieme, che indulgeva nel vizio non soltanto per fisiologica manifestazione dell’ebbrezza della gioventù, ma anche e soprattutto per annegarvi le sofferenze fisiche e morali.
La mostra documenta il suo rapporto con la fotografia e gli inizi pittorici che ebbero per soggetti i cani e i cavalli, ma entra nel vivo con il trasferimento dell’artista a Parigi nei primi anni Ottanta: prostitute, assenzio e can can. Era il leit motiv delle sue nottate che si susseguivano una dopo l’altra, quel tipo di nottate che segnano il volto di rughe e cicatrici, che deturpano l’anima fin nel profondo, lasciandosi dietro cenere e ricordi. Un destino in fondo voluto, cercato, amato, consumato nei baccanali della vita notturna, che si concentrava a Montmartre, l’antica Mons Martis di romana memoria, e in tempi più recenti ricettacolo di comunardi, prostitute, borseggiatori, ballerine, artisti di strada. Una miscela esplosiva, l’ideale per “celebrare” il nuovo corso, e Lautrec vi trovò numerose e interessanti fonti d’ispirazione. La sua pittura fu assai eclettica, traendo ispirazione dagli Impressionisti, da van Gogh, dalle stampe giapponesi, e portandovi illuminate innovazioni non soltanto stilistiche, ma anche e soprattutto concettuali. La sua Parigi, osservata e ritratta con lucidità e crudeltà, ci racconta il “dietro le quinte” della commedia umana, la solitudine delle ballerine dai costumi scintillanti, delle prostitute dalle vulnerabili nudità, e insieme l’allegria dei locali notturni, e lo sfavillio dei teatri.
Ma l’importanza della pittura di Lautrec non sta soltanto nel suo valore documentario della Parigi dell’epoca; a livello stilistico e concettuale, anticipa buona parte dell’Avanguardia europea più disperata del decennio successivo, quella legata alla Secessioni di Monaco e Vienna, nonché all’Espressionismo berlinese. Dalle folle danzanti di Lautrec si sprigiona una solitudine persino più tetra di quella che caratterizzerà le donne di Richard Gerstl e i reduci di guerra di Otto Dix. E ancora, quei volti sardonici, con sorrisi che sono amare pieghe di disprezzo, verso se stessi come verso gli altri. Una mollezza simile all’inedia, ad esempio, accompagna Yvette Guilbert: gli occhi semichiusi e il sorriso smorto, lasciano immaginare la stanchezza che coglie dietro le quinte, dopo aver eccitato per mezz’ora un intero pubblico. Espressioni che sono ghigni beffardi, e che più tardi ritroveremo nelle stagioni mature di Kirchner, Kokoschka, Dix, Grosz. Le donne di Lautrec, cantanti, ballerine, prostitute, borghesi, non sono mai caratterizzate da particolare sensualità o bellezza, assai raramente sorridono con dolcezza, ben più spesso accennano una smorfia, lontane anni luce dalla sensualità di Boldini e Zandomeneghi. Assai meno angeliche e più mascoline di quanto vorrebbe la morale patriarcale, sue ballerine di Lautrec sono fatte di carne, guardandole si percepisce il movimento delle gambe, il profumo di cipria della loro pelle, il fruscio della seta dei costumi. E le sue prostitute, lungi dall’essere ragazze perdute, sono in realtà esseri umani che la sventura ha sovente precipitate nel vizio, ma non per questo hanno perduta l’innocenza; lo si comprende osservandole nei piccoli gesti quotidiani in cui le ritrae Lautrec, al momento del risveglio, della colazione, dell’igiene intima, della pettinatura. Ragazze che si prendono cura di sé come ogni altra, ma sole più di altre, in un certo senso emarginate. Anche per questo, non disprezzava la loro compagnia, e passava lunghe ore a ritrarle sul “luogo di lavoro”. La serie Elles, realizzata in un bordello parigino, è uno dei suoi lavori più toccanti, intriso di struggente poesia e verità sociale.
La passione di Lautrec per il mondo dello spettacolo lo portò a ideare una nuova forma di pubblicità. Con lui, di fatto, nasce il manifesto pubblicitario elevato a opera d’arte grazie alla delicatezza dei colori, alla finezza del disegno, alla capacità di stintesi fra immagine e messaggio; per tramite di Lautrec, l’estetica coadiuva e amplifica la pubblicità. Il Moulin Rouge e il Divan Japonais, ad esempio, aumentarono la loro popolarità anche grazie ai suoi manifesti. Così come le affiches da lui inventate – sorta di cartoline con l’immagine dedicata -, contribuirono alla notorietà degli artisti del varietà, una su tutti Jane Avril, per la quale nutrì un affetto particolare e della quale lo inteneriva la difficile storia personale, nella sostanza simile alla propria: figlia di una madre alcolizzata che morì suicida, la Avril visse nella dura povertà, ma riuscì contro tutto e tutti a coltivare la passione e il talento per il ballo, grazie al quale riuscì a rifarsi una vita. Lautrec stesso aveva lottato contro il destino che si era accanito su di lui, aveva vinto le proprie difficoltà fisiche, aveva imposto alla vita il suo volere. Eppure, non si sentì mai un vincente, sapeva che il fisico meschino lo esponeva a derisioni. Che puntualmente annegava nell’assenzio.
Questi capolavori pittorici raccontano un’epoca, ma soprattutto la sensibilità di un artista che, alla stregua di Giacomo Leopardi, faceva delle sue mancanze fisiche materia di speculazione universale. A suo modo, anche Lautrec è un filosofo dell’esistenza, probabilmente il primo esistenzialista in terra di Francia.