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Blade Runner 2049: Denis Villeneuve racconta una nuova generazione di replicanti

BLADE RUNNER 2049

BLADE RUNNER 2049

Trent’anni dopo gli eventi del primo film, il nuovo Blade Runner 2049 del regista Denis Villeneuve riporta al cinema il capolavoro di fantascienza

A trent’anni dagli eventi del primo iconico Blade Runner (e a ben sette versioni del film, rimaneggiate dal regista Ridley Scott) è da poco uscito Blade Runner 2049, nuova immersione nell’universo retrofuturistico creato dalle pagine di Philip K. Dick (Il cacciatore di androidi, ma l’espressione “blade runner” proviene dal titolo di un romanzo del 1974 di Alan Edward Nourse).

A occuparsi dell’impresa è Denis Villeneuve che si è felicemente confrontato col genere sci-fi nel suo memorabile Arrival. Il primo Blade Runner, uscito nel 1982, ci aveva incantato con un’originale commistione fra il genere sci-fi, il noir e il poliziesco à la James Ellroy, genere da cui Blade Runner ha mutuato una certa estetica che è poi diventato un modello di retrofuturismo. Negli anni, Ridley Scott ci ha proposto più versioni del suo film in cui ci spostiamo dalla storia dell’innamoramento di un uomo nei confronti di un replicante (prima uscita nei cinema, 1982) fino alla storia di un replicante che scopre la sua vera identità (The Final Cut, 2007). Villeneuve si è dichiaratamente mosso da queste due versioni “agli estremi” per realizzare il suo Blade Runner 2049, che oltre al protagonista K (il troppo piatto Ryan Gosling) vede Harrison Ford riprende il ruolo di Rick Deckard.

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A colmare le lacune sui cambiamenti avvenuti nell’universo di Blade Runner in questi trent’anni ci pensano tre cortometraggi: Blade Runner: Black Out 2022, 2036: Nexus Dawn e 2048: Nowhere to Run. Il primo è un piccolo gioiello d’animazione firmato da Shinichirô Watanabe (il padre di Cowboy Bebop) e racconta di come i replicanti hanno provocato un Black Out per disperdere i dati riguardanti la loro identità e impedire così di essere braccati e cacciati a oltranza. Il secondo e il terzo sono invece firmati da Luke Scott, figlio di Ridley, e raccontano l’ascesa delle aziende Wallace e il ripristino della produzione dei replicanti dopo il fallimento della Tyrell, l’azienda che ne aveva in carico la produzione durante gli eventi del primo film.

2049, il blackout ha provocato un’escalation di odio nei confronti dei replicanti, che nella nuova produzione Wallace hanno un’aspettativa di vita maggiore e sono sempre più simili agli esseri umani. Il blade runner K (Ryan Gosling) perlustra il territorio di Los Angeles – il cui tessuto urbano è ormai costituito da una megalopoli sempre più simile a una delle visioni di William Gibson, con tanto di edifici delle industrie e multinazionali che detengono il potere economico e finanziario (un diretto riferimento alle zaibatsu industries del cyberpunk) e periferie-sprawl in cui prolifera una fauna composita e ai limiti della legge – alla ricerca dei vecchi modelli di replicanti da “ritirare” (all’atto pratico da uccidere). Le sue ricerche per conto del tenente Joshi (Robin Wright) della polizia di Los Angeles lo porteranno a indagare su un caso risalente a trent’anni prima, un caso che cambierebbe la posizione dei replicanti nella società e che coinvolge l’agente Deckard e la replicante Rachael del primo film. Intanto i ricordi realizzati dalla dottoressa Ana Stelline (Carla Juri) e innestati su K per renderlo più umano iniziano ad avere un legame inquietante con il caso, cui s’interessano anche il visionario magnate Niander Wallace e il suo spietato “angelo” Luv (Sylvia Hoeks).

Sospiriamo quando leggiamo che per il ruolo di Niander Wallace, Villeneuve avrebbe voluto David Bowie ma questo non toglie nulla all’interpretazione affilata e altrettanto sovrannaturale che ne ha dato Jared Leto.

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Possiamo considerare Blade Runner 2049 un’operazione compiuta, Villeneuve riesce a coniugare e aggiornare l’iconica eredità di Ridley Scott con la propria visione del cinema, proponendo certo, nuove riflessioni sull’identità, sulla sua materialità e sull’evoluzione, ma trovando spazio per raccontare ancora una volta di un femminile costretto, imprigionato e manipolato. Pensiamo alla Lolita in formato software JOI (Ana de Armas), costretta a impersonare più di un ruolo per compiacere il suo proprietario K, JOI lo accompagna nella sua ricerca, ne lenisce le ferite emozionali ma se il momento lo richiede può essere spenta o cancellata. Dopotutto il suo stesso nome, JOI, è un riferimento al sottogenere porno Jerk Off Instruction che prevede una profonda interazione tra il performer e lo spettatore, in una forma simile al PoV. Anche la replicante Luv è succube rispetto al volere magistrale di Niander Wallace, il tenente Joshi è intrappolata nei protocolli e protegge lo status quo a costo della vita, infine Ana Stelline, costretta a creare le sue meravigliose visioni in isolamento a causa di una malattia congenita.

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Blade Runner 2049 stupisce poi per la bellezza della fotografia e l’immaginifico universo costruito. Le scene “tossiche” della Los Angeles post apocalittica, con quelle desolanti ed enormi statue erotiche, create dallo stesso Villeneuve, sono già iconiche. Infine la colonna sonora di Hans Zimmer sembra aggiornare le intuizioni musicali di Vangelis, autore dell’indimenticabile colonna sonora del primo Blade Runner.

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