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Enrico Castellani. La religione della ripetizione

Enrico Castellani Enrico Castellani Superficie bianca, 1990
Enrico Castellani
Enrico Castellani
Superficie bianca, 1990

Una riflessione sull’opera e sulla figura del grande artista scomparso a 87 anni. La riproposizione di moduli invariabili come un mantra: lo sviluppo del pensiero interno

“Castellani? Ha dipinto un solo quadro, e poi l’ha replicato per tutta la vita”. Con queste parole mi accadde – saranno ormai una ventina d’anni – di scandalizzare due signore dell’arte italiana riunite per una cena a casa mia, Giuliana Dorazio e Nini Mulas, rispettivamente moglie del grande artista e vedova di uno dei maggiori geni della fotografia italiana. Parole superficiali, allora pronunciate con una certa brutale sintesi forse giustificabile (oltre che con le molte bottiglie vuote che troneggiavano sulla tavola) con l’acritica sicumera ricorrente nei giovani.

Un aneddoto che ora richiamo per allontanare l’opzione emozionale, nel ricordare un grande artista come Enrico Castellani – scomparso nei giorni scorsi a 87 anni – a lungo frequentato: sempre elegantissimo, bello di una bellezza antica, austera, “nobile”, appariva a inaugurazioni e incontri per poi appartarsi nella sua timidezza e riservatezza, che rischiavano di passare per alterigia. Eppure quelle parole, rilette oggi, suonano più vicine alla verità di quanto non sembri a primo impatto: lo stesso Castellani – con modulazioni diverse – le potrebbe sottoscrivere, se è vero che a Gillo Dorfles che nel 1964 gli domandava se ci fossero differenze fra le sue opere, rispondeva “Non c’è una grande differenza. C’è un tentativo di ricerche di maggiore affinamento, ma una differenza sostanziale non c’è, perché l’artista deve sempre rispettare la sua linea di ricerca”.
Rispettare la sua linea di ricerca: è questo il dogma esclusivo su cui Castellani indirizza la propria fede laica. Una coerenza estrema a se stesso che trova le sue basi nel carattere schivo e tiepido verso il “nuovo” (rispondendo a Mila Pistoi nel 1966 parla di “esigenza di autonomia di un tipo di opera che si fonda sullo sviluppo del suo pensiero interno”), e che informa tutta la sua esistenza: lo scorso anno, al direttore di un’importante rivista che gli chiedeva una nuova intervista, rispose tranchant “Ho già detto tutto nella mia intervista del 1986. Ripubblicala. Né io né il mio lavoro sono cambiati”.

Enrico Castellani
Enrico Castellani
Carta, 1969
estroflessione su carta

Opzioni teoretiche, financo esistenziali, indispensabili nella lettura di un percorso creativo rigoroso fino a divenire spersonalizzato, costruito su opere che l’artista stesso rivendicava come “indiscutibili”, non interpretabili. Non è questa la sede per una digressione critica sull’opera di Castellani, che del resto è ormai consegnata alla storia: i fondamentali e ricorrenti studi di architettura, la conoscenza e la comprensione di Lucio Fontana, l’azzeramento dell’arte ma con gli stessi strumenti dell’arte, tela, pennello, colore, le esperienze “militanti” di Azimuth con Piero Manzoni e Agostino Bonalumi e poi del Gruppo Zero, la scelta della tela monocroma estroflessa, un oggetto percorso da reticoli simmetrici che diventa il suo “medium” pressochè esclusivo.

“Io penso che qualsiasi opera d’arte possa essere riproducibile in serie”, confidava ad Angelo Trimarco. La riproposizione di moduli invariabili diviene quasi il suo mantra, una pratica zen magari riconducibile alla sua ammirazione per l’”orientalista” Mark Tobey, il suo costruire un Minimalismo di cui Donald Judd nel 1966 lo riconosce come padre. Lo sviluppo del pensiero interno, quindi il rifiuto delle mode, la distanza dalle dinamiche creative ingaggiate dal sociale, dalle ideologie. Piero Manzoni, l’amico e il sodale degli esordi radicali, affrontò la sua purtroppo breve esistenza come un vulcanico genio creativo; Castellani scelse di essere un monaco della forma, dello spazio, della luce.

Enrico Castellani
Enrico Castellani
Spartito 1969
Fotografia di Attilio Maranzano courtesy Fondazione Prada

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