Al cinema Suburbicon, di George Clooney. Who will survive in America?
Dopo l’anteprima alla 74. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, arriva nelle sale italiane Suburbicon, l’ultimo lungometraggio firmato da George Clooney. Nel cast Matt Damon, Julianne Moore e Oscar Isaac.
Welcome to Suburbicon! A town of great wonder and excitement. Built with the promise of prosperity for all.
Presentato nella selezione ufficiale del Concorso all’ultima edizione della Mostra di Venezia, arriva nei cinema italiani Suburbicon, l’ultimo film diretto da George Clooney, ispirato a una sceneggiatura dei fratelli Coen e interpretato da un cast stellare, fra cui l’amico storico del regista Matt Damon e Julianne Moore (nel doppio ruolo di due sorelle).
Gardner Lodge (Matt Damon) è un uomo come tanti altri: un impiegato sorridente che vive con la moglie (Julianne Moore), il figlio (Noah Jupe) e la cognata (di nuovo Julianne Moore) in una delle – tutte uguali – case pastello della tranquilla Suburbicon, specchio della periferia americana anni Cinquanta, fatta di panni stesi al sole e barbecue domenicali.
>> La ridente routine che scandisce la quotidianità delle famiglie di Suburbicon viene interrotta quando, proprio nella villetta a fianco ai Lodge, si trasferisce una famiglia di colore. Complice un sadico tempismo, una notte la famiglia del protagonista viene attaccata da alcuni malintenzionati, che rapinano la graziosa abitazione e uccidono la moglie del povero Gardner.
Per la comunità di Suburbicon è l’inizio del delirio: se a Suburbicon (come recita la locandina italiana del film) tutto è come sembra, questi due episodi sconvolgono la stabilità dei cittadini e innescano una spirale di violenza che – in un crescendo delirante di assurdità e follia – smaschererà i segreti più torbidi e il finto idealismo del sogno americano.Per il suo sesto lungometraggio, George Clooney sceglie una black comedy dai toni esagerati e rispolvera un vecchio copione scritto negli anni Ottanta da Joel e Ethan Coen, gli autori più deliranti della postmodernità americana, che hanno fatto di Mister Clooney uno dei loro principali attori feticcio, da Fratello, dove sei? (2000) all’ultimo Ave, Cesare! (2016).
La firma dei fratelli è più che evidente fin dalla scelta del cast. Tutti e tre gli attori protagonisti sono infatti vecchie conoscenze dei Coen: Matt Damon ha recitato ne Il Grinta (2010), Julianne Moore ne Il Grande Lebowski (1998) e Oscar Isaac in A proposito di Davis (2013).
Lo stesso sfondo della vicenda ricorda la periferia urbana di A proposito di Davis; la pancia dei protagonisti (strizzata da bretelle troppo colorate) ricorda la figura del simpatico John Goodman (attore simbolo dei Coen); ancora, alcuni dettagli grotteschi (dagli occhiali da vista distrutti agli immancabili caschi delle parrucchiere) rimandano senza dubbio all’immaginario costruito dai Coen nei trent’anni di carriera.
Ma George (che, dopo il matrimonio e la nascita dei gemelli, si vocifera coltivi ambizioni presidenziali…) non si accontenta del thriller comico confezionato dagli amici di sempre. Al contrario, aiutato da Grant Heslov (già suo collaboratore fin da Good Night, and Good Luck, l’esordio cinematografico del Clooney-regista) interviene sul copione e sfoga la sua passione politica attraverso la storia parallela della famiglia di colore.
Così, ispirandosi alla vicenda reale dei coniugi Myers, famiglia afroamericana che negli anni Cinquanta si trasferì nel quartiere residenziale di Levittown, Pennsylvania, scatenando l’ira di protesta degli abitanti bianchi e medio-borghesi (l’episodio è raccontato nel documentario Crisis in Levittown, 1957), Mister Clooney non perde l’occasione di riagganciarsi alla polemica riguardo ai risultati delle ultime elezioni presidenziali americane.
>> George Clooney non è nuovo all’interventismo politico, come testimonia l’impegno da sempre esercitato nelle questioni umanitarie più urgenti del pianeta: si pensi ai suoi viaggi in Ciad e Sudan, alla collaborazione con le Nazioni Unite, o alla partecipazione al film documentario Darfur Now (2007), per sensibilizzare il mondo sulla crisi del Darfur.
L’incendio di follia che coinvolge tutta la comunità rappresentata nel film, guidata dall’odio razziale e dall’ideale del privilegio dell’uomo bianco, contribuisce a raccontare un’America che, per quanto riportata indietro nel tempo agli Happy Days di Eisenhower, costituisce una critica ben più amara all’amministrazione contemporanea del Presidente Trump.
È lo stesso Clooney, in conferenza stampa a Venezia, a fare riferimento ai commenti isolazionisti e intolleranti del Presidente e a sottolineare come da sempre l’uomo bianco (in particolare quello americano) abbia avuto la tendenza a “guardare dalla parte sbagliata”: non sarà certo nemmeno un caso se i muri che la comunità di Suburbicon costruisce per non vedere la famiglia afroamericana, nella pratica, aiutino la stessa famiglia afroamericana a non guardare gli orrori della sua controparte bianca.Era il 1970 quando l’artista afroamericano Gil Scott-Heron, icona del jazz e poeta dei diritti civili, in Comment No. 1 s’interrogava sul fallimento dell’American Dream e sulla condizione afroamericana negli Stati Uniti, chiedendosi a gran voce: “Who will survive in America?”.
George Clooney, abbandonate le feste in terrazza e il Martini (dopotutto, ormai è un uomo accasato), a distanza di quasi cinquant’anni dal poeta – e a sessanta tondi tondi dall’episodio della famiglia Myers – sembra porsi, di nuovo, la stessa domanda.
La risposta, però, non è affidata alla squadra di attori e colleghi protagonisti del film; al contrario, si conserva pura e innocente nelle mani dei due bambini. Con uno slancio di fiducia nelle nuove generazioni, Clooney risolve così in modo forse troppo generalista (e democratico) un dibattito attuale e molto più delicato di ciò che racconta nella sua favola suburbana.
>> Ritratto impietoso della classe medio-borghese americana, il film non è stato accolto con grande favore dalla critica e dal pubblico statunitensi. Suburbicon è divertente, ricco di momenti preziosi e di sentimentalismi che ci fanno tanto sorridere, quanto commuovere. È un film giusto, confezionato dal talento di tutta la sua squadra (persino le musiche sono affidate al genio di Alexandre Desplat) e perfettamente equilibrato fra la sua dimensione à la Coen e il romanticismo politico di un regista che nel suo messaggio ci crede davvero.
Qualche cinéphile appassionato potrebbe giustamente notare che il film non è altro se non ciò che ci si aspetta: una sceneggiatura dei Coen affidata alla regia di Mister Clooney. Ma poco importa, perché il film, dopotutto, è proprio questo: una sceneggiatura dei Coen affidata alla regia di Mister Clooney. E non potrebbe essere più coerente.
D’altronde, come recita la locandina italiana, a Suburbicon il mondo va così: e tutto è esattamente ciò che sembra.