“Le mostre memorabili sono quelle che inventano le regole del gioco”
Christian Boltanski
Pensate ad una mostra e tenete bene a mente tutto ciò che ricordate di essa. I quadri alle pareti, le transenne poste all’altezza delle caviglie che vi impediscono di avvicinarvi alle opere per guardarle (figuriamoci toccarle!), il personale che osserva ogni vostro movimento o che vi ammonisce non appena scattate una fotografia non consentita.
Ecco, prendete tutti i vostri ricordi e metteteli da parte.
>> Qui, all’HangarBicocca di Milano, le opere si possono toccare, calpestare, prendere in mano e portare a casa, modificare, scarabocchiare e persino mangiare: sostanzialmente tutto ciò che di norma è vietato fare in un museo.
Il titolo della mostra a questo punto parla da sé: Take Me (I’m Yours). Un imperativo che è un invito a scardinare tutte le regole, in un ambiente che si rigenera e che muta costantemente, in cui l’artista è anche (e soprattutto) lo spettatore.
Una borsa di carta, firmata da Christian Boltanski, è tutto ciò che serve per creare la propria “collezione” e portarsi a casa (o nello stomaco) le opere d’arte esposte. Il costo? Dieci euro. Ridicolo se paragonato alle cifre che le gli stessi artisti in mostra –Cattelan, Nauman, Höller, Vezzoli e non solo– raggiungono nelle gallerie e nelle aste di tutto il mondo.
Take Me (I’m Yours) è, ed è sempre stata, da questo punto di vista, una vera e propria provocazione: democratizzare l’arte, renderla una cosa per tutti come diceva William Morris.
L’esperimento, così piace chiamarlo ai suoi due “papà”, Hans Ulrich Obrist -direttore della Serpentine Gallery di Londra- e Christian Boltanski -artista francese-, nasce all’inizio degli anni ’90. I due, già legati da una grande amicizia, concepiscono l’idea tra l’una e l’altra delle loro lunghe e spesso poco realistiche “chiacchiere da bar”.
>>Reinventare il modo in cui l’arte viene presentata al pubblico. Sconvolgere il rapporto tra il visitatore e l’opera. Questa l’idea vincente. Mettere –finalmente- in discussione il concetto di “arte-reliquia”, di opera sacra ed inavvicinabile e interrogarsi sul tacito assenso che il visitatore dà alle convenzioni, ai divieti e ai limiti che gli vengono imposti di fronte all’arte in un qualsiasi contesto espositivo.
La prima della fortunata serie di esposizioni itineranti venne presentata ben 22 anni fa, nel 1995, alla Serpentine Gallery di Londra. Al centro della collettiva un’opera di Boltanski, Quai de la Gare, che l’artista aveva già “esposto” nel 1991: una pila di abiti usati che le persone potevano raccogliere in una borsa e portare via. Qualcuno li ha usati, altri li tenuti nella borsa considerandoli opera d’arte; questo era il bello, lo scopo, il fatto che nella dispersione materiale dell’opera ognuno l’avesse “fatta sua” e le avesse dato un significato.
Dieci anni dopo, nel 2015, la prima riedizione a Parigi nella sede dell’antica zecca di stato, nel periodo in cui si teneva anche la FIAC -la fiera d’arte della Ville Lumière– uno spazio e un momento decisamente particolari, se scelti per mettere in evidenza e in discussione il tema del valore dell’opera d’arte. Se da un lato le opere venivano comprate a cifre esorbitanti dall’altro le si poteva portar via al solo prezzo del biglietto di ingresso.
Parigi poi Copenhagen, New York, Buenos Aires e ora Milano, sempre con la stessa –geniale- formula che ha coinvolto fin dall’inizio artisti di diverse generazioni e movimenti che hanno costantemente rinnovato e ripensato la mostra, approdando a quello che oggi è esposto all’HangarBicocca: i lavori di oltre 50 artisti tra gli “storici” del 1995 e alcune new entry, guidati -oltre che da Obrist e Boltanski- da Chiara Parisi e Roberta Tenconi.
Nel grande spazio dedicato, appositamente allestito da Martino Gamper, si può davvero fare di tutto: mangiare caramelle e cioccolatini, farsi ritrarre da un disegnatore, portarsi a casa un poster di Cattelan firmato da Boetti o uno di Nauman, sedersi davanti al cavalletto e ritrarre un manichino, lasciare un oggetto e prendere, se siamo fortunati, un vestito che ci piace.
>>Bambini che si divertono a giocare con gli hula-hoop, “meno giovani” che si interrogano davanti all’installazione che permette di pubblicare un selfie su una pagina Instagram, innamorati che fotocopiano le loro mani giunte, Milanesi -e non- che segnano il loro itinerario del cuore sulla mappa di Milano di Ugo La Pietra.
Take Me (I’m Yours), in un’epoca in cui il mondo dell’arte si è ingrandito a dismisura e in cui spesso le opere passano in secondo piano -offuscate da interessi estranei a quelli meramente artistici- riscrive per davvero le regole del gioco e crea qualcosa di straordinario, unico e irripetibile.
Il segreto? Non pensare a quello che è già stato fatto, bensì negarlo e fare ciò che nessuno ha mai osato fare.
Informazioni utili
Fino al 14 gennaio
Pirelli HangarBicocca
Via Chiese 2
20126 Milano