L’inchiesta sul Salone del libro va avanti. E’ il Salone che non si capisce bene quanto andrà avanti ancora. Al di là delle belle parole e delle scontate assicurazioni, Torino sembra cominciare a rassegnarsi. I bilanci sballati, i debiti, le polemiche, la saga sull’orlo di una crisi di nervi di questa indagine giudiziaria senza fine, la Fondazione a un passo dalla chiusura, tutto sembra andare verso una sola direzione. Senza contare che il nuovo corso in Comune ha già fatto capire che la cultura non è affatto una priorità. «Siamo seduti su una bomba a orologeria», ha detto il sindaco, Chiara Appendino, «altro che allori del passato».
La verità è che pure quelli stanno finendo in Procura. Adesso è il turno di Piero Fassino, ex primo cittadino pd e ambasciatore a muso triste di Renzi, e Antonella Parigi, assessore alla cultura della Regione Piemonte. Non è che loro fossero è proprio degli allori: gli splendori erano i successi da illusionisti strombazzati a suon di fanfare e tamburi. Oddio, in verità, vista la pretestuosità di stile woodockiano di certe accuse, ci sentiremmo di essere un po’ più garantisti. Ma notoriamente noi contiamo meno di niente. E conta molto di più quello che dice la magistratura.
Per Fassino e Parigi si parla di turbativa d’asta e della violazione del bilancio 2015, dove sarebbe stato sopravvalutato il valore del marchio della Fondazione. La turbativa d’asta sarebbe da affiancare alla nomina considerata sospetta della direttrice della Dmo Piemonte Marketing Scarl, Maria Elena Rossi. Su che basi non ci è dato sapere. Ma anche questo conta. L’accusa parte da un postulato, che l’obiettivo era quello di salvare la Fondazione del libro, motore del Salone, la manifestazione simbolo della città. E che questo obiettivo sarebbe stato raggiunto con l’inganno.
Secondo l’accusa, sindaco e assessore avrebbero spinto il consiglio d’amministrazione a portare il bilancio del 2015 con dati falsati all’assemblea dei soci per l’approvazione. E per ottenere di fatto quel risultato, il documento sarebbe stato sottoposto a varie alchimie. Così un esperto aveva valutato il marchio della Fondazione 2 milioni e 800mila euro, gonfiandone oltremodo il valore, visto che di recente una perizia – contestatissima dalla Regione – ne ha abbassato pesantemente la quotazione a centomila. Già questo trucco rabberciava di parecchio l’asfittico bilancio del Salone. Ma poi ci sarebbero i crediti esigibili o parzialmente esigibili contabilizzati come buoni, ammortamenti sopravvalutati o sottovalutati a seconda della convenienza. E qui ci permettiamo una domanda angosciante: questo è il sistema che in realtà usano tutti i governi della seconda Repubblica, nessuno escluso, all’atto di redigere la finanziaria, gonfiando entrate incredibili come quelle, ad esempio, sulla lotta all’evasione o sparando cifre inverosimili sulla vendita di beni pubblici, per pareggiare i conti. Se è un reato, e noi francamente non ci avevamo mai pensato, che succederà adesso? Facciamo un bel pacchetto carcerario di tutti i governi? Non che ne faremmo un dramma, sia chiaro. E’ il Paese che magari si vedrebbe decapitato. Ma se è giusto, che si proceda.
Nel caso di Torino, ci sarebbero stati anche altri artifizi che non ci è dato di sapere. Fassino e la Parigi hanno espresso abbastanza stoicamente tutta la loro fiducia nell’operato della magistratura. E i garantisti di Forza Italia hanno immediatamente chiesto le dimissioni della Parigi senza fare accenno ad alcuna lapidazione. Le solite schermaglie politiche. Vanno avanti da un bel pezzo, tra gli sbadigli generali, da quando è cominciata l’inchiesta, una saga ormai, separata in diversi filoni: ben 21 le persone coinvolte nell’indagine.
L’accelerata parte il mattino del 22 maggio 2015, quando viene perquisita la sede della Fondazione del libro, e indagato per peculato l’allora presidente Rolando Picchioni. Secondo l’accusa sarebbero state fatte emettere da persone compiacenti fatture per operazioni mai eseguite, in modo da far uscire soldi dalle casse della Fondazione. Un anno dopo, nel mese di luglio, vengono arrestate 4 persone, il direttore generale del Lingotto Fiere, Regis Favre, il direttore marketing Gl Events Roberto Fantino, il segretario della Fondazione Roberto Macri, e – agli arresti domiciliari – Antonio Bruzzone, dirigente di Bologna Eventi. L’accusa è turbativa d’asta. Tra gli indagati spunta il nome dell’assessore alla cultura del Comune, Maurizio Braccialarghe, che è una persona perbene apparentemente al di sopra di ogni sospetto: ma si sa che in una indagine giudiziaria queste sono cose irrilevanti…
L’accusa è per tutti quella di turbativa d’asta per il modo in cui la multinazionale francese, Gli Events, che gestiva Fiera Lingotto, aveva ottenuto la possibilità di organizzare il salone. Durante l’inchiesta sarebbe emerso che un funzionario della Fondazione avrebbe passato alcune informazioni coperte dal segreto a un dirigente del Lingotto Fiere in modo da aiutare la multinazionale francese.
Un anno ancora e un’altra botta. Luglio 2017: 6 nuovi indagati. Il lavoro degli inquirenti cominica a puntare Regione e Comune. Ipotesi di falso in atto pubblico. Brand del salone del libro sovrastimato a bilancio per risanare i conti della Fondazione. Un altro filone segue le spese fuori controllo. E l’ultimo quello dei finanziamenti pubblici. E adesso? «Nessuno vuole liquidare la Fondazione, così, per toglierci un problema», dice Chiara Appendino. «Nessuno di noi è brutto e cattivo. E’ la Corte dei Conti che fa espresso divieto a soci pubblici di ripianare un disavanzo dell’ente in mancanza di un piano di risanamento credibile approvato dai soci. Noi non siamo legati al modello Fondazione così com’è. Si può anche pensare a una struttura diversa: di sicuro sarebbe folle mantenere una situazione di incertezza ed emergenza continua». Più chiaro di così. Anzi, più Chiara di così.