Coinvolgimento, contaminazione e creatività sono tre punti chiave per ri-pensare, in forme originali, l’offerta museale. Tre punti che confluiscono nella relazione tra musei e videogiochi, un binomio che può forse risultare stridente, ma che in Italia sta producendo risultati degni di nota. Per capire come è nata questa singolare unione dobbiamo porci una domanda: quali sono i pubblici di un museo nel 2018? Pubblici, al plurale, per non dimenticare che un museo deve rivolgersi a target diversi, per esempio, sul profilo dell’età, del genere, dell’istruzione e deve conoscere i suoi pubblici attuali, potenziali e i non pubblici che incidono nella progettazione della comunicazione museale.
In un mondo che è sempre più un insaziabile divoratore e produttore di contenuti e di dati, che vive in una dimensione consumistica ultra-personalizzata, che dispone del tempo libero con il contagocce, il museo deve stare al passo coi tempi in quanto “istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo” (articolo 2.1, ICOM). È finestra sul mondo e ciò significa che deve conoscere i comportamenti, i desideri e le aspettative dei propri pubblici, abituali e non.
L’Audience Development e l’Audience Engagement sono temi caldi nell’ambito museale. È un fatto appurato che la scarsa partecipazione culturale sia uno dei grandi dilemmi dei musei. Che cosa fare per attutire il problema? Si prende atto che un museo ha fruitori eterogenei – per questo si parla di pubblici e non di pubblico – e si cerca una ricetta vincente, con una buona dose di creatività, d’immaginazione e di dati alla mano, senza aver paura di andare “fuori dagli schemi”.
Nel 2016 AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani) ha dichiarato che quasi il 50% degli italiani ha usato, durante l’anno, almeno un videogioco. Sono oltre 25 milioni i videogiocatori sopra i 14 anni nel nostro Paese. Si pensi alla fascia d’età di questi fruitori: il 7,2% ha tra i 14 e i 17 anni, 6 videogiocatori su 10 hanno tra i 25 e i 55 anni, gli over 65 rappresentano il 7,9%. I gamer sono sia uomini che donne e giocano spesso e volentieri in compagnia: con i familiari (17,8%), con gli amici (10,7%) e con altri giocatori online (10,8%). Da non sottovalutare il fattore economico: il videogioco made in Italy fattura complessivamente intorno ai 40 milioni di euro annui.
Perché allora non canalizzare questi potenziali pubblici verso i musei? Perché non trarre dai meccanismi di coinvolgimento, di interattività e di creatività dei videogiochi dei modelli da applicare anche alla fruizione di un museo? Insomma: chi l’ha detto che al museo non ci si diverte?!
In Italia la sfida alla gamification in ambito museale è ufficialmente iniziata. Apripista è il videogioco “Father and Son”, sviluppato dall’associazione culturale TuoMuseo per il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. È il primo videogioco al mondo pubblicato da un museo e dal suo lancio, nell’aprile del 2017, a oggi ha superato 1.400.000 download. Una lettera ricca di rimpianti e di speranze dà il via a un’avventura ambientata a Napoli il cui fulcro è la collezione del MANN. “Father and Son” non solo coinvolge in prima persona il giocatore nella scoperta dei reperti e della loro storia, ma lo incentiva a visitare fisicamente il museo per sbloccare alcuni livelli. La barriera tra analogico e digitale crolla per offrire al visitatore-giocatore un’esperienza interattiva a 360°.
Recentemente il Museo Marino Marini di Firenze ha lanciato il progetto “Playable Museum Award”. Dalle parole di Patrizia Asproni, presidente del museo: “Il Playable Museum Award è una sfida e nasce dall’esigenza sempre più forte di considerare i musei, anche per attrarre e coinvolgere nuove generazioni. Il Marino Marini di Firenze vuole diventare un hub di innovazione e sperimentazione, un museo-laboratorio dove pensare e creare prototipi e idee da poter poi declinare anche in altri musei”. Una call per pensare al museo “che gioca”, immaginando nuove modalità di fruizione della collezione e degli spazi e coinvolgendo nuovi pubblici. Il prodotto finale non deve essere necessariamente un videogioco, ma “Father and Son” ha insegnato qualcosa.
Altro caso di rilievo è il progetto di IVIPRO (Italian Videogame Program) che si prefigge l’obiettivo di individuare location italiane in cui ambientare videogiochi che valorizzino questi luoghi. Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma è tra le location inserite in questa lista, così come Palazzo Te a Mantova, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” a Milano e altri ancora.
Quelli citati sono alcuni dei tanti esempi di un movimento che sta rivoluzionando il modo in cui un museo può coinvolgere e dialogare con i suoi pubblici. Le strade da intraprendere sono differenti, i videogiochi rappresentano una di queste vie. Quale sia il cammino scelto, ricordiamo le parole di Italo Calvino in Lezioni Americane: “Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”.
L’edutainment è una realtà imprescindibile a tutti i livelli. Imparare divertendosi, coinvolgere il proprio pubblico o i propri clienti, rendere interattive anche le più semplici e ripetitive attività quotidiane. L’Italia, grazie anche al suo immenso patrimonio storico e artistico, ha un enorme potenziale da sfruttare, se saprà farlo ne trarranno beneficio, una volta tanto, tutti.
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