Mercoledì 14 febbraio, il giorno di San Valentino, c’è stato un incontro nella sala Napoleonica dell’Accademia di Brera a Milano per ricordare Gianfranco Bruno. Lia, la moglie squisita di Gianfranco, mi ha invitato a parlare e con grande piacere ho fatto un tuffo nel passato negli anni dell’Accademia quando lui era mio professore di storia dell’arte.
L’occasione è stata la pubblicazione di un volume che riguarda i suoi lavori di artista, Bruno come Testori, Dorfles, Longhi e molti altri è stato anche artista oltre che critico. Ma nel ’77 quando mi sono iscritto a Brera era soprattutto famoso per La ricerca dell’identità, una mostra mitica realizzata a Milano a Palazzo Reale di Milano pochi anni prima.
In copertina al catalogo c’era un opera di Bacon degli anni ’50, e volente o nolente ha segnato il suo destino quando aveva poco più di trent’anni. Una mostra fondamentale in cui io e molti altri avevamo visto per la prima volta dal vero le opere di Richter, di Richard Gerstl, di Lopez Garcia, di Francis Gruber, Edward Kienholz e altri ancora…
Peccato che nella sala Napoleonica di Brera ci fossero quasi solo persone della sua generazione perché avevo pensato che, per i ragazzi che oggi frequentano l’accademia, potesse essere molto utile conoscere una figura così fuori dai circuiti.
Gianfranco Bruno insegnò a Brera 4 anni poi andò a dirigere l’Accademia Ligustica a Genova e in quel periodo io lo seguivo passo passo tanto che alla prima mostra che ho fatto a Torino alla galleria La Bussola fu lui a scrivere il testo di introduzione del catalogo. Fu per me molto importante, aveva tracciato delle linee guida della storia dell’arte che ancora oggi dopo tante passioni diverse restano per sempre dei punti fermi. Bruno non amava i riflettori tanto vero che i suoi argomenti erano spesso legati ad artisti che preferivano una strada solitaria.
Riusciva a far dialogare Gericault con Arnulf Rainer e in questo modo ci voleva far capire che l’arte è sempre contemporanea e come guardare l’arte del passato ci aiuti a capire il presente. Erano gli anni del grande successo internazionale della transavangurdia con cui Bruno, mi ricordo bene, non andava certo d’accordo ma questo non per una forma di reazione ma credo -visto con gli occhi di oggi- perché era infastidito che l’arte potesse diventare un oggetto di manovre speculative.
Aveva intuito come l’arte contemporanea potesse prendere la strada degli effetti speciali, del sensazionalismo gratuito: cosa che poi puntualmente avvenne.
Bruno era dalla parte dell’arte che riguardava la sfera privata, più intima di noi tutti, tanto è vero che le parole che lui dedica a van Gogh restano forse le più importanti.
Tutto questo vale anche per la sua opera di artista, che era poi la ragione vera di quell’incontro. Un’opera che lui non aveva mai voluto mostrare, se non in rare occasioni. Un lavoro ricco di sorprese, in cui la riflessione sul passato, anche su quello recente, rivela come molte strade siano ancora aperte.
Pastelli di rocce, autoritratti, nudi nel paesaggio e finestre.. Sfogliando le pagine di questo volume ci rendiamo conto di quanti motivi -nel senso cezanniano del termine- sono ancora lì per essere esplorati.
Citando un’affermazione di Damien Hirst, presa dalla sua pagina di Instagram, mi sono reso conto dalle facce storte che in quella sala l’artista inglese non fosse poi molto amato, ma mi aveva incuriosito il modo in cui spiegava in maniera semplice e chiara il suo ultimo lavoro.
Dopo la clamorosa mostra di Palazzo Grassi credo moltissimi si saranno chiesti cosa avrebbe fatto dopo. Ebbene gli ultimi quadri pubblicati su Instagram sono delle grandi opere astratte colorate a puntini, come un divisionista. Nel profilo social Hirst spiegava che da ragazzo aveva visto una mostra di Pierre Bonnard a Parigi e quei quadri erano frutto di quell’infatuazione.
Anche per un grande personaggio come Hirst, certamente difficile da catalogare, il passato, come nel lavoro di Gianfranco Bruno resta sempre una porta aperta per capire il presente.
Speriamo che Gianfranco non me ne voglia…