Venti anni di trasformazioni storiche e artistiche, dalla ricostruzione del 1948 alla fine del miracolo economico nel 1968 e l’esplosione della contestazione giovanile. Un’Italia controversa, raccontata attraverso ottanta opere, da Guttuso e Fontana a Manzoni e Rotella. A Palazzo Strozzi, fino al 22 luglio 2018.
Firenze. Entrata in vigore il 1 gennaio del 1948, la Costituzione repubblicana sanciva l’avvento dell’Italia democratica, che nasceva dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, in un’Europa divisa dalla cortina di ferro, e che la vedeva relegata ai suoi margini a causa dell’ambiguo atteggiamento negli anni di guerra.
Un’Italia alla ricerca della propria identità sociale e politica, dove la vita pubblica era dominata dalla contrapposizione ideologica fra un’idea di liberalismo che fatalmente veniva identificata con il passato regime, e la corrente social-comunista che aveva guidata la resistenza (anche se a questa avevano concorso in buona misura i reparti del ricostituito Esercito Italiano); allo scontro politico si aggiungeva quello sociale, ad esso fatalmente collegato, fra classe operaia e imprenditoriale, ma anche fra mondo laico e mondo cattolico. Quando arrivò, il Sessantotto si saldò a questa contrapposizione già in atto, contribuendo purtroppo incidentalmente alla lacerazione del Paese che ancora non ha trovata una sua identità nazionale compiuta.
La mostra Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano, non è, come spiega il curatore Luca Massimo Barbero, una mostra celebrativa, bensì di riflessione su un periodo storico molto controverso, che ancora non si riesce ad affrontare con la dovuta obiettività storica. In quegli anni nacque l’idea che la cultura potesse essere soltanto “di sinistra” (come se veramente avesse una connotazione politica), tant’è che intellettuali che non condividevano quell’orientamento subirono un vero e proprio ostracismo: Giovanni Comisso fu uno di quegli.
La cultura italiana, pertanto, ebbe caratteri di accesa organicità, non troppo diversamente da quanto era accaduto con il Futurismo all’interno del Fascismo; la mostra si apre infatti con la grande pittura propagandistica di Renato Guttuso (iscritto al PCI), quella monumentale Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1955) di garibaldina memoria, e metafora del nuovo risorgimento italiano in nome della lotta di classe (Garibaldi era stato scelto come simbolo del Fronte Popolare alle elezioni del 1948); un esempio di realismo mitologizzante, portatore di speranza e di tenace fede nell’ideologia. A raccontare la questione sociale, anche artisti di visioni opposte al realismo, che però furono oggetto di una feroce critica da parte di Palmiro Togliatti, che nel 1948 sulle pagine di Rinascita si espresse contro l’arte astratta, colpevole di non saper parlare alle masse, di essere autoreferenziale; nell’ottica partitica il realismo è funzionale alla propaganda dell’idea, l’astrattismo no, e quindi è considerato antiprogressista. Ma questo non impedì ad artisti di sinistra, come Giulio Turcato, di proseguire nel loro cammino artistico; proprio Turcato eseguì una delle opere più incisive di quegli anni, quel Comizio (1950) che nella forma del triangolo sintetizza i vessilli comunisti che si ergono come monumenti. Il dibattito proseguì per alcuni anni, ma a seguito della destalinizzazione, e del cambiamento dei rapporti fra il PCI e Mosca, la polemica perse la sua ragione di essere.
Intanto l’Italia si avviava al miracolo economico, e anno dopo anno nasceva la società dei consumi, ma le difficoltà attraversate lasciavano il segno: i Sacchi di Alberto Burri contengono infatti la memoria delle consegne di derrate alimentari per tramite del Piano Marshall, da molti vissute con un lieve senso di umiliazione. Con i suoi interventi di assemblaggi e pitture, Burri afferma il superamento di quei giorni drammatici, così come la rinascita morale e materiale del Paese attraverso una creativa operosità.
L’Italia degli anni Cinquanta lavorava infatti a pieno ritmo, e cominciava a godere di qualche accenno di “dolce vita”. Che arrivò puntuale negli anni Sessanta, e che Fellini seppe subito cogliere in quel leggendario film che si guadagnò il biasimo del Vaticano. Opportuno meno che fosse, effettivamente l’Italia cominciava a perdere quei valori di riferimento che sino ad ora avevano contraddistinta la vecchia società rurale; spopolatesi le campagne, ingranditesi le città con periferie squallide e maltenute, dove la coesione sociale lentamente si sfalda, dando vita a fenomeni di emarginazione e abbia, che poi sfoceranno, in gran parte, nella delinquenza dilagante degli anni Sessanta e Settanta (la banda della Magliana è solo il caso più eclatante di una lunghissima serie).
Il mondo dell’arte si trovò coinvolto nel dibattito nazionale, e cercava di dare eco a quel malessere che Italo Calvino aveva così efficacemente e poeticamente analizzato in quel piccolo capolavoro a metà fra raccolta di racconti e saggio sociologico che è Marcovaldo, ingiustamente ritenuto un libro per bambini.
Scarpitta, Manzoni, Consagra, ancora Turcato, e poi Bonalumi, sperimentarono nuovi linguaggi espressivi, mutuati anche dall’Espressionismo astratto americano, e ridefinirono i concetti di spazio e materia, sospesi fra onirico e reale, e legati alla dimensione del pensiero. Il peso della società dei consumi si faceva schiacciante, la televisione e la pubblicità martellavano l’individuo proponendogli modelli di stile e di vita; si espande l’universo quotidiano, ma a un ritmo non sostenibile, che sacrifica la sfera intima e uniforma il pensiero.
Il movimento dei poveristi cercò dapprima di analizzare il rapporto fra pensiero e materia, ma come spiega al meglio la mostra, anche gli artisti furono in un certo senso travolti dalla società dei consumi e dello spettacolo (teorizzata da Guy Debord); pertanto, nella loro seconda fase, l’Arte Povera cercava l’identificazione con l’azione e il processo creativo. Che troverà una piena applicazione con gli happening di gruppi quali UFO o Superstudio, momenti di contestazione artistica che si contrapponevano alle ben più violente contestazioni sociali. Tuttavia, l’artista proprio nei cruciali anni Sessanta, perse la capacità di parlare al pubblico, al popolo: perso nelle sue sperimentazioni, che si tratti di Fontana con lo spazialismo, di Merz con l’Arte Povera o di Getulio Alviani con la Op Art, l’artista è impegnato in un discorso per esegeti, lontano dal sentire dell’uomo della strada. Winter e Hartung in Germania, non sono meno complessi, ma riescono a parlare al pubblico, a interpretarne il sentire.
La critica che Togliatti aveva espressa nel 1948, non era del tutto infondata: dal suo punto di vista, l’astrattismo non serviva la causa del partito, perché non comprensibile nel modo in cui propaganda l’idea. In quella non comprensibilità, risiede tutto il problema della distanza fra pubblico e cultura italiana, che non è limitato alla questione del PCI; è purtroppo generale. Nello specifico, in arte si interrompe quel serrato dialogo con il pubblico che, avviato con i Macchiaioli, era proseguito fino ai Futuristi. L’arte, negli anni Sessanta, diventa una sorta di fenomeno di costume, in quanto inserito in un sistema di mercato che ne fa, prima di tutto, un business. A dispetto dell’ideologia che, almeno di facciata, resta inalterata, l’arte diventa una questione di denaro. Il fenomeno di Mario Schifano, fra serate al Piper e apparizioni televisive con costruì la sua immagine di “artista maledetto” dedito all’alcol e agli stupefacenti, dimostra abbastanza bene come l’artista engagé fosse ormai un buon imprenditore di se stesso, esattamente come Warhol lo era negli Stati Uniti. Tuttavia, i simboli statunitensi, continuavano a essere presi di mira, fra cui l’immagine del dollaro, o gli abiti di Brooks Brothers (che Domenico Gnoli utilizza – senza citarli ma riprendendone il taglio -, come stigma contro i “colletti bianchi”).
Nel 1968, così come negli anni immediatamente precedenti e in quelli immediatamente successivi, la contestazione era argomento à la page, e per artisti e intellettuali non era ammissibile non schierarsi in suo favore. L’unico che ne ebbe il coraggio, fu Pier Paolo Pasolini, con Malaparte l’intellettuale più scomodo d’Italia, e che disapprovò energicamente sul Corriere della Sera gli universitari che avevano lanciato pietre contro la polizia a Valle Giulia; la questione sociale per la quale si diceva di combattere, non poteva essere risolta aggredendo quei poliziotti che erano “figli del popolo”, uomini giovani e meno giovani che lavoravano per mantenere le rispettive famiglie. Non poteva essere quello il metodo di lotta: al contrario, avrebbe dovuto esserci una saldatura sociale con la quale contestare civilmente la politica. Così non fu, il Sessantotto si perse fra lacrimogeni e urla di piazza, fra manifestazioni artistiche più o meno opportuniste, e non è un caso che molti dei sessantottini siano stati, o siano ancora, firme di importanti giornali, direttori di telegiornali, opinionisti, parlamentari, e formino una casta non diversa da quella che a suo tempo contestarono.
La mostra di Palazzo Strozzi è importante non soltanto da un punto di vista artistico; anzi, questo passa in secondo piano, davanti all’analisi sociologica che ne possiamo trarre, osservando le opere esposte con attenzione. Le contraddizioni di cui visse l’Italia in quei venti anni, che avrebbero potuto invece essere spesi per costruire una definitiva identità nazionale, causarono invece spaccature ancora più profonde all’interno del tessuto sociale, fra lavoratori e imprenditori, fra scrittori e lettori, fra artisti e pubblico. E, a parte pochi nomi, fra cui Montanelli, Pasolini, Guareschi, mancarono intellettuali indipendenti in grado di ergersi a coscienze morali del Paese, e aiutare l’individuo a sviluppare un suo senso critico. La contestazione fu un fenomeno politico, non ebbe una guida intellettuale, né tantomeno artistica. E per far nascere una Nazione, a dispetto di quanto recita il titolo della mostra, più ancora che dei tagli di Fontana, delle bruciature di Burri, o degli inscatolamenti di Manzoni, probabilmente sarebbero stati necessari pensatori come Lutero, Montaigne, Cartesio, Voltaire, ma nati in Italia; i pochi che gli somigliarono, erano stati esiliati o imprigionati (vedi Ochino e Carnesecchi), oppure, come accaduto a Pasolini in tempi più recenti, brutalmente assassinati. Da queste mancanze che hanno radici lontane, deriva anche il difficile rapporto del pubblico con la cultura.
Quindi, che in quei venti anni sia nata una nuova Nazione, ovvero l’Italia repubblicana, in retrospettiva è dubbio: le Repubbliche sono già diventate due, e forse, come alcuni prevedono dopo le elezioni del 4 marzo, potrebbe iniziare anche la terza. Ma questa mostra ha però l’indubbio pregio di far emergere tutte le contraddizioni dell’Italia, un Paese dove, per citare Longanesi, “si vive alla giornata fra l’acqua santa e l’acqua minerale”.
Nascita di una Nazione
Tra Guttuso, Fontana e Schifano
16 marzo – 22 luglio 2018
Palazzo Strozzi
p.zza Strozzi 50123 Firenze
A CURA DI: Luca Massimo Barbero
Orari- Tutti i giorni inclusi i festivi 10.00-20.00
Giovedì 10.00-23.00
Tel +39 055 2645155
info@palazzostrozzi.org
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