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Materialità e metamorfosi. La poetica pittorica di Joan Miró in 85 capolavori, a Padova

Mostra Miró Padova Joan Miró - Dipinto, 1936 Filipe Braga, © Fundação de Serralves, Porto © Successió Miró by SIAE 2018
mostra Miró Padova
Joan Miró – Apparizione, 1935 Filipe Braga, © Fundação de Serralves, Porto. © Successió Miró by SIAE 2018

Joan Miró. Materialità e Metamorfosi. Un’occasione unica per ammirare al di fuori del territorio portoghese le 85 opere della Collezione Mirò conservate nella città di Oporto. A Palazzo Zabarella di Padova fino al 22 luglio 2018 arazzi, disegni, sculture, dipinti, collages, raccontano quasi sessant’anni della carriera di Joan Miró dal 1924 al 1981.

Padova. L’arte come mezzo espressivo dall’orizzonte infinito, aperto a una continua sperimentazione, ma soprattutto intesa come strumento d’indagine delle possibilità dell’immaginario, in un’ottica di speranza e positività per l’essere umano. Il catalano Joan Miró (1893-1983) è stato un artista in costante equilibrio fra Astrattismo, Surrealismo, Espressionismo astratto, Informale, senza mai aderire completamente a una di queste correnti. Nella sua pittura, hanno sempre avuto la prevalenza il movimento, la dimensione e il colore, al di là delle classificazioni di genere; con questi tre elementi, ha saputo creare una poetica pittorica di ampio respiro, dove un segno fondamentalmente semplice, cela in realtà molteplici significati.

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Joan Miró – Personaggio, 1960 Filipe Braga, © Fundação de Serralves, Porto. © Successió Miró by SIAE 2018

Nel vasto panorama di mostre dedicate a Miró che si sono viste in Italia, Joan Miró. Materialità e metamorfosi, curata da Robert Luba Messeri, ha certamente caratteri unici, sia per l’importanza delle opere, sia per la storia recente che le ha avute protagoniste; le 85 opere provengono infatti da una collezione privata, acquistata in blocco fra il 2004 e il 2006 dal Banco Portugues de Negocios il quale, per la sopraggiunta crisi finanziaria, in cerca di liquidità, ha cercato di rivenderle all’asta, ma una vera e propria protesta popolare lo ha costretto a rinunciarvi.

Le opere sono così rimaste in Portogallo, patrimonio perpetuo dello Stato, e sono adesso visibili a Padova, nell’unica mostra al di fuori del territorio lusitano. Oltre che per queste vicende, la collezione è notevole per la quantità di opere di Mirò risalenti agli anni maturi della sua carriera, ovvero dal 1950 alla fine degli anni Settanta, quelli che solitamente vengono trascurati, perché ritenuti meno interessanti rispetto ai decenni Venti e Trenta, anni che sicuramente ebbero un’importanza fondamentale per la sua formazione, che risale agli anni della Grande Guerra quando anche in Spagna giunse comunque l’eco della grave crisi sociale che aveva investita l’Europa.

Il mondo dell’arte vede la nascita delle Avanguardie, e avverte la necessità di ripensare la modernità attraverso nuovi metodi di rappresentazione della realtà. Il Fauvismo, il Cubismo, il Surrealismo, persino il Bauhaus, furono esperienze che Miró conobbe in maniera diretta o indiretta dopo un soggiorno a Parigi negli anni Venti; in questo decennio controverso e angoscioso, sviluppò un linguaggio vicino a Paul Klee, in cui la linea diventa il “segno alfabetico dell’impressione” di oggetti e soggetti visti o immaginati dall’artista.

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Joan Miró – Dipinto, 1936 Filipe Braga, © Fundação de Serralves, Porto © Successió Miró by SIAE 2018

In linea con l’elvetico (in quegli anni in aperta polemica con il Bauhaus per l’approccio eccessivamente tecnico verso l’arte), la sua pittura sfiora l’astrattismo puro, ma mantiene un seppur tenue legame con la figurazione. I suoi soggetti fluttuano sospesi nell’immaginario, metafora dell’individuo dell’epoca che ha perse certezze e valori, e al quale restava, come ultima risorsa per scongiurare la caduta nel baratro, di guardarsi indietro, di ritornare almeno in parte a ritmi di vita del secolo precedente, di allentare, insomma, quella pressione che gravava sul suo capo come una spada di Damocle.

Linee e colori si ramificano sulla superficie che diviene un piccolo universo di immagini e simboli riprodotti con un tratto semplice, che esplora il mondo dell’onirico quasi come con gli occhi di un bambino, ed è come se, più o meno inconsciamente, Mirò volesse ricordare all’umanità, in quegli anni di crisi e angoscia, l’innocenza e la purezza dell’infanzia, in una sorta di monito morale all’Europa purtroppo avviata sulla strada di un nuovo conflitto.

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Joan Miró – Personnage, 1978 Filipe Braga, © Fundação de Serralves, Porto. © Successió Miró by SIAE 2018

Fra gli anni Venti e Trenta, Miró realizzò anche disegni con applicati collages e decalcomanie rifacendosi al concetto di simultaneità del Cubismo, ma in lui non c’è la questione del virtuosismo tecnico, quanto, semmai, una leggera ironia con cui costruisce immagini spiazzanti, che concettualmente rimandano al Surrealismo. La sua pittura ha costanti implicazioni con il subconscio; per sua stessa ammissione, il suo carattere lasciava spesso emergere un lato di tragico fatalismo, non sorprendente in uno spagnolo, il cui ascetismo contemplativo nasceva da un rigido cattolicesimo radicato nei secoli e da paesaggi di arida bellezza. Elementi che anche Miró aveva assorbito, e ai quali fu costretto ad aggiungere, dal 1936, la guerra civile in Spagna e dal 1939, la dittatura franchista, la quale non decretò mai alcun riconoscimento al suo talento artistico, a differenza del resto del mondo.

Con la seconda metà degli anni Trenta, la tavolozza di Miró si fa più scura, nasce un universo di creature mostruose partorite dagli incubi della mente umana; la serie Dipinti, realizzata su masonite con applicazioni di catrame, si caratterizza per la pennellata grossolana, e una violenza estetica che è un diretto richiamo alla tragedia della guerra civile spagnola, allo stesso modo di quanto aveva fatto Picasso con Guernica, ma anche con le Bagnanti del 1937.

Eppure, anche a dispetto del suo caratteriale fatalismo, non perse la fiducia nell’arte, e in quello stesso 1937 realizzò il poetico Le chant des oiseaux, dipinto dietro l’urgenza di trasferire su una dimensione più accettabile la violenza della guerra, e di cercare sollievo -anche se temporaneo- rifugio e speranza nella pratica artistica, un po’ come accade per Cesare Pavese con la scrittura; l’arte, in qualunque forma, si dimostra capace di alleviare, almeno in una certa misura, la sofferenza esistenziale.

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Joan Miró – Natura morta con farfalla, 1935 Filipe Braga, © Fundação de Serralves, Porto. © Successió Miro by SIAE 2018

La natura fu un elemento cui Miró seppe guardare con partecipata meraviglia, e pur traducendola in forme minimaliste e stilizzate, non ne perse mai di vista la grazia e la delicatezza poetica, anzi ne fece un simbolo di purezza e onestà, così come onesta è la sua stessa arte che con la natura è in profonda comunione, anche per quella luminosità mediterranea che caratterizzerà molte tele degli anni successivi.

La Seconda Guerra Mondiale vide Miró esule in Svizzera, e al ritorno della pace la sua ricerca artistica riprese instancabile: in una serie di soggiorni negli Stati Uniti, si avvicinò all’Espressionismo Astratto, nato, per inciso, da una costola del Bauhaus, e nello specifico da Klee e Kandinsky. A Parigi, invece, entrò in contatto con gli ambienti dell’Informale e della pittura materica, che in un certo senso lui stesso aveva già inventato dieci anni prima.

Con un simile bagaglio d’esperienza, la sua carriera conobbe una nuova fase, che la mostra di Palazzo Zabarella ha il pregio di raccontare in maniera approfondita: a partire dagli anni Cinquanta, e per tutti i Sessanta, l’artista adottò un linguaggio ancor più basilare e “primitivo”, e in certe figure antropomorfe addirittura anticipa Basquiat; si tratta di un trasferimento su tela del senso di oppressione causato dalla Guerra Fredda, così come dal franchismo, che seppur attenuato restava un regime comunque temibile.

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Joan Miró – Tela bruciata, 1973 Filipe Braga, © Fundação de Serralves, Porto. © Successió Miró by SIAE 2018

Nella pittura di Miró per la prima volta entrò anche il bianco e nero, appena “scoperto” dalla corrente della Op Art; ma il catalano utilizzò questa combinazione cromatica in una sua personalissima rilettura, realizzando la serie dei Senza titolo, dove la delicatezza della carta giapponese accoglie il minimalismo poetico della china nera, a creare sommessi haiku che sono altrettante elegie della natura, con esplosioni stellari, organismi marini, gocce di pioggia; e fra le increspature della carta, sembra quasi di percepire i suoni un po’ misteriosi di un mondo “altro”, scientifico e onirico insieme.

La determinazione di Miró alla sperimentazione materica continuò anche negli anni Settanta con la serie dei Sobreteixims, arazzi che, in un certo senso, sono la “trasposizione tridimensionale” dei collages degli anni Trenta; qui l’artista ha utilizzato sacchi da farina, con applicazioni di feltro, lana, filo di cotone. Opere dalla valenza di feticci primitivi, sculture inusuali di un immaginario senza tempo, ma anche opere indicative del rapporto di Miró con la materia; qui il filo colorato si sostituisce alla tempera e al pennello, così come nei collages il fil di ferro aveva sostituito il disegno a china.

Questa affascinante collezione, visibile a Padova in via straordinaria, permette di apprezzare la carriera di Miró nella sua completezza, e di comprendere al meglio sia gli aspetti estetici si quelli concettuali della sua arte che a prima vista può sembrare superficiale, ma in realtà è densa di significati e suggestioni, e racconta quasi un intero secolo con le sue aspirazioni e le sue angosce.

Informazioni utili

Joan Miró. Materialità e Metamorfosi 

Palazzo Zabarella, Padova

Dal 10 marzo al 22 luglio 2018

Organizzata dalla Fundação de SerralvesMuseu de Arte Contemporânea di Oporto.

 

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