Michael Johansson è in questi giorni a Milano per la sua nuova personale Alternative Readings che sarà visitabile fino all’11 maggio 2018 presso gli spazi della galleria The Flat. Abbiamo colto l’occasione per fargli alcune domande.
Con Alternative Readings, Michael Johansson continua la sua esplorazione su come la percezione degli oggetti quotidiani di cui ci circondiamo possa cambiare tramite l’utilizzo di alcuni semplici accorgimenti. Oggetti raccolti da diversi luoghi e contesti vengono assemblati in entità coerenti, legati tra loro da riferimenti di colore e forma.
Nel momento in cui gli oggetti vengono tolti dal loro contesto originario la loro funzione diviene incerta. Perdendo le coordinate usuali si trasformano in qualcosa di impalpabile, di più attraente e incomprensibile. Attraverso gli anni l’artista svedese ha gradualmente espanso e sviluppato l’approccio al suo lavoro con varie esplorazioni: con questa ultima personale la sua attenzione si è arricchita col tema del doppio e della rifrazione.
Gli oggetti di uso comune sono al centro della tua poetica. Come scegli quelli che formeranno le tue opere? Queste nascono da un’idea, da un progetto, o sono gli oggetti che ti suggeriscono la strada da seguire?
In realtà può accadere in entrambi i modi. A volte trovo un oggetto, o uno spazio, che innesca un’idea che seguo. Questo mi porta a cercare e raccogliere altri oggetti, piccole cose che utilizzo per creare un’opera che possa combaciare con quell’intuizione.
Ma può anche accadermi di trovare un oggetto minuscolo, poi un altro e un altro ancora e infine accorgermi che questi insieme possono creare qualcosa. In questa mostra invece lavoro con opere “a specchio”, reversibili in un certo senso, che rimangono sempre uguali anche ruotandole. Questa idea ha influito sul processo creativo: devo trovare ogni oggetto due volte e questo mi ha portato anche a scegliere oggetti che non avrei considerato in altre occasioni.
Nelle tue opere c’è una riflessione sul consumismo?
Sì, certo! Il consumismo è la ragione per cui posso trovare gli oggetti con cui lavoro: per comprare cose nuove ci liberiamo di oggetti che in realtà funzionano ancora benissimo e che sono ancora belli da vedere, per qualche motivo siamo sempre in cerca dell’ultima versione di tutto. In realtà non è il mio focus principale, ma volente o nolente il consumismo è sempre presente nei miei lavori, è qualcosa a cui penso sempre quando raccolgo gli oggetti.
Sei stato influenzato dai readymade di Duchamp e Man Ray, o dall’operato di altri artisti?
Sicuramente, ma oggi è molto comune che qualcuno usi degli oggetti nelle opere d’arte. La differenza è che i primi artisti rivoluzionari che hanno cominciato a usare gli oggetti nell’arte hanno dovuto combattere per far accettare i loro lavori artistici come tali. Ora invece nessuno può più discutere sul fatto che questa sia arte, quindi il nostro compito è quello di vedere quanto lontano e fino a quali conseguenze possiamo portare questo concetto.
Quali sono le differenze tra lavorare per spazi pubblici e per quelli privati come gallerie e musei?
La differenza sostanziale sta nel fatto che quando lavori per spazi pubblici o su commissione devi già avere un’idea prima di produrla, devi quindi presentare vari schizzi dell’opera che vorresti creare. In un certo senso devi fare il lavoro due volte. In galleria invece puoi discutere su quello che vorresti fare in un certo spazio, soprattutto se collabori con una galleria con cui hai un reciproco rapporto di fiducia.
Allora puoi anche arrivare a concepire un’opera in loco, come è successo qui a The Flat per l’installazione principale della mostra: non avevamo la più pallida idea di cosa volessimo fare quando sono arrivato qui qualche settimana fa, è qualcosa che si è concretizzato dopo aver trovato due tavoli in deposito.
È qualcosa che non potrebbe mai succedere per una commissione pubblica: devi mostrarti interessato, loro selezionano degli artisti e dopo una sorta di competizione la giuria decide qual è l’idea migliore. Dopodiché devi trovare il modo di produrre l’opera nel modo migliore… come vedi è un sistema molto controllato e più rigido.
Se avessi la possibilità di creare un’opera per l’Italia, per quale luogo ti piacerebbe farla?
Oh wow! Qui in Italia ci sono veramente tanti luoghi fantastici che si potrebbero “riempire”. Voglio dire, mi piacerebbe veramente moltissimo fare qualcosa qui in Italia, le città sono ricchissime di storia, dappertutto, sono una combinazione tra moderno e antico. A dir la verità non ho mai pensato a un luogo in particolare… ma sono sicuro che ci sarebbero molte cose che potrei fare qui.
Da dove nasce il titolo della mostra, Alternative Readings?
Ho pensato al titolo da dare alla mostra prima che concretizzassi le opere in ogni loro dettaglio. Per questo volevo che il titolo fosse in qualche modo “aperto”, così che potesse includere anche opere diverse tra loro. Sai, a volte un titolo può veramente limitare lo spazio in cui operi. Ma al contempo volevo qualcosa che fosse connesso con il concept su cui sto lavorando.
Innanzitutto lavoro con oggetti di uso quotidiano in modo da trasformare il come li guardiamo solitamente; inoltre le mie opere possono essere lette in modi differenti, da prospettive diverse, tali da far raccontare storie ogni volta nuove. Perciò ero in cerca di un titolo che potesse mostrare anche questo aspetto del mio lavoro: sono già opere che raccontano delle storie diverse, alternative, rispetto al quotidiano ma questo non implica necessariamente che i significati siano già stabiliti, immutabili. C’è sempre un modo differente di vedere le cose.
Alternative Readings – Michael Johansson
presso galleria The Flat – Massimo Carasi, via Paolo Frisi 3, Milano
> 11 maggio 2018