Stranamente ritorno nella bassa, vicino al Po, sono luoghi che ho frequentato poco seppure Colorno sia vicino a Parma; un contatto più mitologico che reale, tutto quell’apparato iconografico e letterario, quel cinema neorealista e non solo, quell’afa sentimentale che ha stranamente qualcosa in comune con la bellezza, o qualcosa di simile. La prima volta c’era una strada bloccata, quella principale, tutta dritta che taglia in due la campagna seminata di capannoni, piccole esplosioni nucleari di cemento. Svolto, il navigatore sembra non rispondere più alle richieste, non riesce a capire il motivo della deviazione, come fosse un’insensatapresa di coscienza, in realtà non saprei dire di cosa: devo solo andare da uno spazio A ad uno spazio B, nulla di più. Fatto sta che inizia a nevicare, fiocchi talmente grossi che il paesaggio mi si presenta ad intermittenza, decelero, la strada inizia a essere scivolosa; l’intensificarsi della neve è direttamente proporzionale a un rallentamento iconografico. Vedo quel poco che mi basta per non fermarmi, ma è quella ridotta porzione che censura tutto il resto a restituirmi una magnifica assuefazione al bianco. Nel frattempo arrivo al confine dell’argine, una strada leggermente in salita, almeno così mi appare nell’omologazione meteorologica.
Sacca di Colorno, una piccola frazione in quel momento isolata dal mondo: parcheggio vicino al cancello, un cortile e muri antichi con mattoni a faccia vista. Una casa simile a un’astronave parcheggiata lungo il Po, sotto una coltre di neve che impedisce una veloce ripartita. Il cappotto scuro diventa un panno a pois, bianco e blu, una macchia che si muove verso la porta a vetri.
Luigi Bussolati possiede quella pacatezza di chi sta fuori dalle grandi città, dai salotti petulanti, dalla mondanità invadente di parte della cultura italiana. Fotografo di luce, anzi di luci (esiste una fotografia che non sia tale?) che orchestra nella consapevolezza che ogni oggetto e ogni spazio siano possibili epifanie. E non fa differenza se l’interesse si rivolge all’architettura delle civiltà nuragica della Sardegna (Genius lucis), a cantieri di centrali idroelettriche (Akn), o a componenti elettronici che sembrano piccole citta in miniatura (Eletroniclandscape). L’azione è sempre quella di inscrivere lo spazio o l’oggetto in una dimensione distante da quella di origine, di creare una barriera luminosa che sottragga l’inquadratura dalla propria Storia, ma non per un semplice vezzo di virtuosismo fine a sé stesso. È la sottrazione a ridare significato all’oggetto/spazio e renderlo autonomo da un contesto ingombrante. L’epifania si rivela proprio nella distanza da un racconto conosciuto, da una quotidianità che censura una forma polifonica. E sarà il passaggio successivo, lasciato all’osservatore, quello di ricollocare l’inquadratura all’interno di un contesto più ampio e rinegoziare il nostro rapporto con qualcosa che credevamo di conoscere.
Che cos’è una centrale idroelettrica?
Che cos’è un nuraghe?
Che cosa sono dei componenti elettronici ad occupare un piano?
Fuori continua a nevicare e noi siamo dentro l’astronave a bere caffè e discutere nuovamente di luce. La neve azzera tutto, lo stesso procedimento della luce che distanzia, separa, blocca.
Fuori il bianco paralizza ogni tipo di estensione dello sguardo. Il Po potrebbe essere a chilometri di distanza, non si sente niente, neanche il profumo delle alghe. Siamo dentro. Dentro ad un esperimento iconografico, come se l’immagine distante, quella separata dal resto del mondo, da ricollocare solo in un secondo momento fossimo noi seduti sul divano protetti da antiche mura.
Fuori continua a nevicare e noi siamo dentro l’astronave, siamo un’epifania che qualcuno sta guardando.