Ho conosciuto Milano arrivando da Parma. Autostrada, tangenziale, uscita Corvetto, direzione Moscova. Ho iniziato a capire che le grandi città contengono piccoli paesi di provincia, uno vicino all’altro e devi essere accompagnato da chi quei luoghi li abita, ci compra il giornale, ci beve caffè, sta seduto al bar a guardare forestieri che transitano dal punto A al punto B: metropolitana e ufficio e uno spazio in mezzo in cui ci sono io seduto con Gianni (Pezzani) a parlare di fotografia, o meglio, di chimica che deforma la fotografia e la brucia e inizia quel racconto per immagini solo lontanamente verosimile, come qualsiasi tipo di scrittura che si rispetti.
Nel 2001 stavo lavorando al suo archivio sparso e disordinato tra Milano, un’abbazia cistercense, le colline di Torrechiara e una pianura padana piatta dove una reggia settecentesca con giardino all’italiana sembra un’improbabile epifania, ma che si concretizza a ridosso di un fiume curvilineo che costeggia mura di un giallo spento, di una regalità ormai annaspante. A Milano, a casa di Pezzani, ci sono delle scatole, delle cartelle, su alcune è impresso il suo nome, anche il suo timbro con quello strano autoritratto a matita, dove il viso si trasforma in parola e si innesca quello scambio linguistico in cui le lettere impazziscono per trovare una forma armoniosa di sintesi educata.
Scatole che contengono fotografie: 1978, automobili attraverso cui guardare il mondo, un paesaggio italiano, una provincia soffocata dall’afa o dalla nebbia, poco cambia, un’Emilia al limite del paranoico, dove le macchine diventano esoscheletri e chi fotografa guarda quella campagna come spazio illusorio, un banco di prova per riscrivere un luogo famigliare, le stesse strade, gli stessi incroci, gli stessi passaggi a livello. La casa a Milano sa di fumo, tende orientali, ma lontane dalle mode contingenti, libri, Ennio Flaiano, Henry Miller, John Fante, trattati di botanica, astronomia, cucina. Quanto sono lontani quei paesaggi contenuti in quelle scatole, fotografie virate, dove i colori si deformano in una ricetta chimica che prende vita in camera oscura, quanto sono lontani quei paesaggi dalla città che le contiene, quartiere di Milano, affacciato sulla nuova Milano.
Alla sera si ritorna insieme verso casa (sua), Torrechiara, la prima collina verso Parma, la pianura che rimane leggermente spostata, a vista d’occhio come una minaccia, come una leggera forma di dolore che ci piace stuzzicare, in uno slancio masochistico, di godimento soffocante. Guido io, come tutte le volte, non mi fido di chi ci vede da solo un occhio e che pretende di fare il fotografo, parliamo di politica ascoltando la radio, parliamo di fotografia guardando fuori dal finestrino e immaginando l’auto come un obiettivo gigante da cui scattare, fermarsi lungo il ciglio, lasciare spalancata la portiera e registrare quello che non succede, quello che potrebbe essere, ma non sarà mai. Immaginazioni fotografiche che non verranno mai impresse e che non avrebbe senso bloccare.
A volte, però, si ci ferma veramente lungo la strada; appoggia il cavalletto, il tempo d’esposizione è lungo, solitamente si arriva verso sera e la luce è poca, e inizia una nuova conversazione in quell’intervallo che è il tempo dello scatto, il tempo dell’accadimento. Era caldo, estate, mi racconta di come era scomparso dall’Italia, nei primi anni Ottanta, di come avesse lasciato gli studi di Vogue, la galleria di Lanfranco Colombo, i paesaggi padani, la propria casa, di come si beveva in Giappone e delle amicizie di Bali, di dieci anni di fuga in cui si abbandona tutto, ma si continua a fotografare. Della grammatica balinese e della sua semplicità e dei lottatori di sumo e del suo amico figlio del fotografo dell’imperatore, uno dei testimoni dei giorni appena successivi a Hiroshima.
Siamo già entrati in casa, anche questa sa di fumo e da qualche porta si aggrappano tendaggi orientali, sottili, quasi trasparenti. Una fotografia di una cipolla si lascia invecchiare alla luce del sole che entra nella cucina, la carta fotografica brucia, i colori cambiano virando il significato dell’immagine.
Quanto è distante Milano.