La Terra di Dio (God’s Own Country), al cinema dal 24 maggio con Fil Rouge Media. La recensione
Dopo un buon riscontro in patria arriva anche da noi (in tempo per il Pride Month, assieme a Love, Simon che arriva il 31 maggio) God’s Own Country. Il film, che ha fatto incetta di premi nel circuito dei festival indipendenti, è stato annunciato come il nuovo Brokeback Mountain, i due in realtà in comune hanno ben poco – lontani anche gli esiti (altissimi) di, ad esempio, Tom à la ferme di Xavier Dolan.
Johnny Saxby trascorre le giornate a spezzarsi la schiena nella fattoria di famiglia sperduta nel Nord dell’Inghilterra. Con lui la nonna e il padre, mezzo infermo, che fanno a gara di severità; la madre ha abbandonato la famiglia da anni, in fuga da quella durissima realtà rurale.
Per Johnny le uniche valvole di sfogo sono ubriacarsi al pub e il sesso occasionale con qualche giovinotto del posto, amplessi consumati in fretta e senza troppi convenevoli in un bagno pubblico o in rimorchio per cavalli. Quando dalla Romania arriva un ragazzo, Gheorghe, che si stabilisce nella fattoria come lavoratore stagionale però cambia qualcosa…
Il centro di God’s Own Country, tradotto letteralmente come La Terra di Dio, è Johnny, che ha sempre dovuto sacrificare le proprie emozioni per assicurare la sopravvivenza economica della sua famiglia. La terra da cui traggono il sostentamento sembra essere anche la loro prigione, fisica ed emotiva.
Il film però si concentra maggiormente la parte meno interessante: quella della storia d’amore tra Johnny e Gheorghe, che è si centrale nello sviluppo del protagonista -tramite la scoperta del sentimento si incammina finalmente nell’età adulta- ma illustrata attraverso una scrittura a tratti fin troppo banale, senza sfumature.Il rapporto più complesso è quello di Johnny con la sua famiglia. God’s Own Country più che una storia d’amore è una riflessione riuscita e profonda sulla fatica che comporta l’accettazione delle responsabilità che porta con sé l’età adulta, in un contesto famigliare difficoltoso e fragile.
Assieme a Josh O’Connor che interpreta Johnny (già visto nel serial TV Ripper Street e in qualche pellicola inglese come Florence Foster Jenkins e Posh) e Alec Secareanu, nei panni di Gheorghe, grande protagonista di quest’opera è, ovviamente, il paesaggio rurale dello Yorkshire, brullo e desolato, che inchioda i personaggi ai propri tempi e ai propri spazi, noncurante di frustrazioni, difficoltà, acredini e desideri sopiti.
La gente che abita queste terra sembra arida e dura proprio come appaiono le lande che la contraddistinguono, verdi ma dall’aspetto ostile, minaccioso e muto.
La storia è cadenzata da episodi di vita rurale rappresentati con toccante verismo Francis Lee, regista qui al suo debutto sul grande schermo, è nato e cresciuto proprio in quelle terre e ha voluto restituire quel senso di isolamento e fatica che l’ha accompagnato nella sua formazione.
Vediamo i protagonisti impegnati ad allevare agnelli, medicare animali, scuoiarli, farli partorire, ma anche a costruire recinti e muri in pietra; ad accompagnarli una fatica fisica e uno sfinimento sentimentale.Più che rifarsi a Brokeback Mountain, La Terra di Dio sembra quasi una sorta di remake di Ander, film spagnolo del 2009 di Roberto Castón passato in Berlinale e vincitore del Festival MIX. Già la primissima inquadratura sembra un richiamo: il cascinale di pietra che si staglia su un cielo scuro e plumbeo al tramonto con le finestre illuminate da una luce calda, antica. Nel caso di Ander storia è ambientata nei Paesi Baschi, il protagonista manda avanti la fattoria assieme alla madre anziana, ma a seguito di un infortunio a una gamba è costretto a ingaggiare un bracciante peruviano che li aiuti: tra i due scatta la passione.
Assieme a pellicole come Beast (Michael Pearce, 2017) e The Goob (Guy Myhill, 2014), o serial come Glue (scritto da Jack Thorne, autore anche di The Fade e This Is England ’88), il film di Francis Lee mostra quel lato d’Inghilterra ancora oggi lontano dalla globalizzazione, in cui la natura è, ancora oggi, una matrigna con un potere maggiore di quanto saremmo portati a pensare.
Perde però mordente premendo l’acceleratore sull’aspetto romantico del racconto, trascurando dinamiche più interessanti e articolate. Resta un buon film (come praticamente qualsiasi pellicola prodotta del BFI – British Film Institute). Avrebbe potuto essere ottimo. Peccato.