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È morto Philip Roth. La scomparsa di un maestro della letteratura del ‘900

Philip Roth Philip Roth
Philip Roth
Philip Roth

Philip Roth è scomparso all’età di 85 anni. A stroncarlo, nella notte del 22 maggio a New York, un’insufficienza cardiaca. Ci lascia uno dei più grandi scrittori del ‘900 americano, autore di circa 30 libri e vincitore del premio Pulitzer nel 1998 con Pastorale americana.

Cade una delle penne più sottili e penetranti della letteratura americana contemporanea. Una delle migliori, per spessore artistico e per capacità di oltrepassare con questo la critica letteraria e raggiungere, sua fortuna o suo malgrado, il grande pubblico che ha fatto di lui un autore di successo, forse addirittura mainstream. Celebre la capacità di Philip Roth di osservare la società intorno a lui e di smascherarne le ipocrisie, anche a costo di una provocazione che è spesso risultata eccessiva ai benpensanti. È stato così per uno dei capolavori di Roth, Il Lamento di Portnoy, che pubblicato nel 1969 – coincidenza cronologica interessante – ha insinuato nella mansueta ricerca della tranquillità esistenziale ossessioni impossibili da ignorare, anche per chi tenacemente finge di non coglierle.

Questo è l’ambiente in cui Philip Roth è cresciuto, sul confine idiosincratico di mondi e culture che si sfiorano ma tremano ad ogni contatto. Nasce a Newark nel New Jersey nel 1933, cittadina ben rintanata nella sua residenzialità ma a nemmeno un’ora da New York. Così dietro alle domeniche in chiesa e ai barbecue di quartiere si possono vedere tra le nuvole spuntare i grattacieli, che emergono come un richiamo alla complessità della vita per un giovane aspirante scrittore in fuga dalla routine provinciale e dalla stringente morale ebraica in cui è nato. Morale scandagliata, decostruita e dissacrata con uno stile in grado di cogliere il grottesco nella tragedia e l’ironia in ogni aspetto serio della società. Le sue opere non sono mai state frutto del caso, ma sempre risultato di uno studio, di una preparazione filtrata da un occhio unico e originale, lettore e cantante di un’umanità disparata, brillante e sconsolata nel suo felice combattimento contro la disperazione.

Philip Roth
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La psicanalisi, la morale, la satira contemporanea e l’erotismo sono stati fin dal principio punti cardine delle opere di Roth, che ha esordito ad appena 26 anni con Addio, Columbus e cinque racconti. La difficile storia d’amore tra due ventenni è la prima di numerose storie volte a sporcare il candore della retorica conformista e a raccontare quelle vicende che tutti in qualche misura sono portati ad esperire, anche se alcuni fingono addirittura di non voler leggere. Ne è un caso emblematico uno dei capolavori di Roth, il Lamento di Portnoy. In una continua alternanza di piani temporali, Alexander Portnoy confessa al proprio silente psicanalista le sue memorie di nevrotico erotomane, desideroso di un’ordinaria banalità, ma impossibilitato a piegare le ossessioni che ne inquietano una vita di apparente successo. Intrappolato dietro al velo delle consuetudine borghesi, le sue tensioni insoddisfatte esploderanno in una distruttiva ricerca del piacere, spesso onanistico. Le critiche ricevute, in particolare dalla società ebraica, minuziosamente dissacrata nelle sue assurde imposizioni, ne hanno allo stesso tempo ostacolato e facilitato il successo di pubblico.

L’organica e sterminata produzione di Philip Roth confluì anche nella creazione di diversi alter ego letterari, sintomo di un’immaginazione fuori dal comune e di una complessità narrativa capace di giostrarsi su diversi piani interpretativi. Spesso la finzione cela infatti una profonda spinta autobiografica, che porta l’autore a nascondersi sotto le fattezze di Nathan Zuckerman, protagonista de Lo scrittore fantasma (1979), Zuckerman scatenato (riferimento al Prometeo liberato di Percy Shelley) e altri romanzi, o ad inserire nelle storie addirittura personaggi che portano il suo stesso nome. Le connessioni interne, i rimandi e i legami sottili fra un’opera e l’altra culminano nel capolavoro dello scrittore americano, che nel 1997 pubblica Pastorale americana, con il quale vincerà il premio Pulitzer nel 1998. Zuckerman, feroce martellatore dell’etica puritana alla deriva, si trova ad un raduno di ex alunni e qui incontra Jerry Levov, che racconta la vita del fratello Seymour. Quest’ultimo incarna il lento ma inesorabile sgretolarsi del sogno americano, la cui perfezione rappresentata da valori luccicanti ma inconsististenti si indirizza verso una disperata dissolvenza.

Puntualmente candidato al premio Nobel (che quest’anno non sarà assegnato), Philip Roth non riuscirà mai a raggiungerlo. Ha pagato forse il suo essere sopra le righe (spesso accusato di scurrilità) e fuori dai binari accademici. Rifiutando il comune pensiero tramandato ha colpito con sarcasmo e disincanto le consuetudini consunte di un’America bigotta. Ha risvegliato dal torpore gli animi di un popolo anestetizzato dal fanatismo ideologico e ha contribuito alla diffusione di un pensiero pluralista in cui anche un’umanità fragile, contraddittoria e sofferente può trovare il suo spazio.

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