Ormai qualche mese fa, non saprei quantificare, ma ricordo che indossavo un impermeabile quasi d’ordinanza, uno strano modo per confondermi con giornalisti che salivano e scendevano le scale del Corriere. Probabilmente ero l’unico ad avere un trench, forse quel giorno andava così, come se avessero saputo del mio arrivo, un modo come un altro di segnalare il forestiero o forse è solo un’eredità immaginaria di quella Hollywood classica dove spuntavano come funghi giornalisti ed investigatori privati, stranamente vestiti uguali.
Siamo entrambi davanti alla porta del suo ufficio, o meglio, del suo studio, anche se i due piani sono difficilmente distinguibili. Gianluigi Colin ha la fortuna d’avere, o avere avuto, a propria quotidiana disposizione il materiale stesso della sua ricerca: informazioni cartacee, fotografie stampate su carta di giornale che si moltiplicano in una sarabanda costruttiva di memoria pubblica accumulata e elegantemente confusa. Direttore artistico per anni del Corriere della Sera e fondatore de La Lettura ha guardato alla forma dell’informazione come memoria collettiva, come iconografia di lenta e costante sedimentazione tendente all’annullamento.
La porta si apre, uno spartiacque di cui ero stato avvertito. Il mio passatempo preferito è guardare gli interni delle case, studiare gli oggetti, la loro disposizione, le librerie, i quadri alle pareti, e tutto quello che descrive l’immaginario intimo e stabile di un’abitazione. Spesso mi capita di osservarli dalla strada, spiando da finestre lasciate aperte come fossero ombelichi trasparenti attraverso cui guardare da buon voyeur un po’ urbano, un po’ casalingo. E ogni studio è una forma abitativa, un nucleo d’accumulo dove il lavoro si mischia a strumenti, scritture, fogli appesi con puntine metalliche.
Un collezionista di memoria, un’archeologia cartacea dove l’informazione è accartocciata a frammento, in una sovrapposizione di strati di cellulosa. Sono seduto alla scrivania, sfogliamo il menabò di un libro antologico sul suo lavoro curato dal critico Arturo Carlo Quintavalle, quello strano genio emiliano che ha fondato il CSAC, probabilmente l’archivio sulla comunicazione (arte, fotografia, architettura, design, moda ecc.) più importante e lungimirante d’Italia. Ed è stato proprio in questo luogo che qualche anno fa vidi per la prima volta le fotocopie di Colin. Perché è quello lo strumento della sua ricerca, è la memoria della notizia, della pagina di giornale, una quotidianità che si sovrappone in stratificazioni iconografiche dove l’informazione è presente, ma mescolata in un turbinio apparentemente incontrollato. È la trasposizione su carta di un processo di incasellamento del quotidiano, dove l’eccesso di dati sembra azzerare o confondere l’immagine e la sua restituzione. La fotocopiatrice scansiona quello che rimane, strati di un’archeologia recente dove anche i volti della politica si trasformano in maschere non troppo dissimili l’una dall’altra.
Penso a “Il grande sonno”, al film, regia di Howard Hawks, sceneggiatura di Faulkner dal romanzo di Chandler. Con un cappello che aiuta l’eleganza della specie Humphrey Bogart conduce un’indagine dall’intreccio talmente complesso e probabilmente imperfetto che a rimanere sono indizi galleggianti in un’atmosfera rarefatta e alcolica.
Vicino alla porta d’ingresso, in un angolo dello studio come un totem appoggiato alla parete la fotocopiatrice segna un territorio, la radicalità della ricerca di Colin, uno strumento di lavoro veloce, rapido nella sua essenzialità espressiva. Ma è da questo strumento che si allontana per un graduale avvicinamento ad un paesaggio informale, un colore che sembra sciogliersi e colare dando forma ad una vegetazione informativa esasperata. È il passaggio finale della sua ultima ricerca, portare alle estreme conseguenze per superare: pezzi di stoffa utilizzati per pulire la rotativa del Corriere, stracci che contengono il sedimento dell’intera giornata, tutte le informazioni, tutte insieme, stese e montate su un telaio. Lunghi rotoli che vengono selezionati da Colin in un gioco estetico come se a rimanere fossero solo visioni, immagini ormai perse e trasformate in altro.
E mi continua a rimbalzare in testa quella scena, Humphrey Bogart si allenta la cravatta in una serra afosa dove sembra non esserci aria se non il minimo indispensabile per respirare:
– Ama le orchidee?
– Non particolarmente
– Sono orribili, la loro carne assomiglia troppo a quella umana e il profumo ha la putrida dolcezza della corruzione.
Trovo molto interessante Arts Life,per tutti gli argomenti trattati.COMPLIMENTI!