Rita Ackermann: Movimenti come Monumenti è la mostra che la Triennale di Milano dedica all’artista nativa di Budapest. Una narrazione immaginifico-biografica dove il dato reale scompare insieme alla figure, lasciando una scia di appagante mistero. Dal 22 giugno al 9 settembre.
Ciò che viviamo assorbe l’esistenza di un istante e poi scivola liquido in un regno di mezzo dove sembra perdere i contorni propri. Cade in un mare di momenti che si sedimentano come legna in camino, bruciano fino a consumarsi in cenere così che il loro sospiro fumoso aleggi come nuvole a riempire la nostra mente. Una vita sognata dove rimaniamo come risultato di momenti incontrati e poi fuggiti, ma che inevitabilmente ci forniscono l’alfabeto invisibile con il quale diamo forma alla nostra voce, passo dopo passo, sull’asfalto senza nome. Per queste strade dense di nebbia e sentimenti, rimorsi e rimpianti salgono come solitari cipressi dalle fronde alte e strette, così alte e strette da risalire sottili fino alla coscienza e sbucare sbiaditi ad una luce sibillina. Capita che queste punte impertinenti incrocino la strada di Rita Ackermann e che lei ne rimanga inizialmente punta, ferita. Ma un taglio non sempre porta il suo segreto a perdersi per disperdersi: in alcuni casi comunica, alimenta, suggerisce.
Da squarci nella tela mnemonica Rita Ackermann ricava lavagne pittoriche di medie e grandi dimensioni. Solidi supporti per eteree figure che sfumano nel momento in cui nascono, o forse proprio esistono in virtù della loro indeterminatezza. Un gruppo di ragazzine posano voluttuose nei loro corpi animati di innocenza residua. Quel che basta per mitigare la risposta violenta di fumo e alcol e riempire lo sfondo nero di un’insostenibile commiserazione. Tra quelle c’è forse la Ackermann, o forse l’artista si nasconde in ognuna delle figure nate dal gessetto. È il getto di un ricordo dell’artista, già disegnato negli anni ’90 e che ora vive di nuova trasposizione, a generare personaggi tesi fra un suggerimento autobiografico e un’invenzione narrativa, dalla quale sembra però difficile eliminare ogni referenzialità personale.
L’atto di addizione creativa trasforma il ricordo in storia, modella il sentimento in forma. Ma se così facendo ne inquadra il contesto, sembra allo stesso tempo cambiare caratteristiche alla sua natura di visione estemporanea, suggerimento di una voce senza labbra. Allora lavagna e gessetto trovano il terzo apice del triangolo, che si chiude e raccorda i due elementi tramite un successivo processo di sottrazione. Grazie ad una spugna Rita Ackermann cancella, talvolta in parte, talvolta quasi totalmente, le figure precedentemente disegnate. Il gesso, che perfettamente si presta all’opera, si scioglie in una coda di imprevedibili sfumature, solo parzialmente controllabili dall’artista. Proprio come i ricordi che animano quelli che lei stessa chiama “paesaggi interiori”. Le forme si articolano allora in movimenti fluidi ma disconnessi, come ricordi ed esperienze che senza chiedere si fanno monumento costitutivo della nostra persona.
Le lavagne, in realtà tele perfettamente coperte di colore dalla Akermann, aderiscono alla tradizione pedagocica steineriana e abbandonano il nero, quasi a rintracciarne nell’oscurità una vuotezza di fondo, in favore del verde. Tonalità forse più incline alla creazione, ma non certo ad uno sconfinamento in territori sereni. I corpi rappresentati e poi nascosti dall’artista sembrano alimentati da un tormento analogo alle figure realizzate da Francis Bacon. Il tratto nervoso e la fisicità contorta lasciano emergere ogni dissidio e contrasto interiore. Una ragazza posa rannicchiata sull’indefinita tavola verde, una serie di arabeschi ne incorniciano le guance piene, gli occhi grandi, lo sguardo sereno. Ma sulla mano destra un ferro da stiro è rivolto verso il petto della ragazza, pronto a bruciare la carne e a soffocare il dolore tra le urla.
Un emergere angosciante nel gioco di visibile/invisibile, assenza/presenza, suggerimento/dichiarazione. I corpi di due ragazzi, memoria del periodo scolastico, si affrontano e si scontrano nella perplessità narrativa dove è impossibile determinare chi sia chi, o tantomeno ricostruire la dinamiche. Linee di corpi che si costruiscono per sfaldarsi, volti che colano quasi erodendo la tela. Con i sui immensi quadri la Ackermann apre la navigazione lungo un orizzonte intimo e immaginifico, dal quale emergono elementi naturali, suggestioni fiabesche e segreti rimandi personali. Un vocabolario di un universo mnemonico dove indifferenti statici monumenti del vissuto si convertono in fugaci movimenti emozionali.
Ulteriori informazioni sul sito ufficiale della Triennale di Milano.