Nell’ottantesimo della scomparsa, ricordiamo Gabriele D’Annunzio con un breve ritratto.
Come disse Albert Einstein, l’immaginazione è più importante della conoscenza. Pochissimi come Gabriele D’Annunzio (1863-1938), seppero usare l’immaginazione nell’arte e nella vita, e creare, con il suo genio per le pubbliche relazioni, un personaggio audace e affascinante. Con i suoi scritti plasmò se non un intero popolo, almeno il suo immaginario, modernizzando costumi e mentalità.
Personalità talentuosa, istrionica, discussa, controversa, amata e odiata con la stessa intensità, a Gabriele D’Annunzio, non si può non riconoscere il merito di aver costruito l’entusiasmo di una Nazione facendole accettare l’idea della necessità storica. Molto probabilmente, a far propendere l’opinione pubblica per l’intervento nella Grande Guerra, fu determinante la sua presa di posizione, accreditata da un carisma e da una fama che già all’epoca aveva caratteri leggendari.
Poeta, drammaturgo, giornalista e romanziere, con la sua adesione al decadentismo negli anni Ottanta dell’Ottocento, aveva saputo rinnovare la letteratura italiana naturalista e positivista. I suoi personaggi, a partire da Andrea Sperelli per finire con Paolo Tarsis, non sono più eroi belli di fama e di sventura, al contrario grondano di onore e di vittoria, echeggiano Dorian Gray e il Superuomo di Nietzsche, fanno della bellezza il necessario orpello della gloria.
Su questi presupposti, D’Annunzio allargò l’orizzonte degli italiani, e creò – anche nella massa meno vicina alla letteratura -, la fascinazione per i sogni, i misteri, gli atti di forza, l’eroismo guerriero. Fu un impatto dirompente su una società asfittica come quella italiana, in un Paese ancora prevalentemente rurale. Quel linguaggio aulico e barricadiero insieme sapeva parlare alla fantasia del pubblico, cantare d’armi e d’amori, di miti e di dee; un virtuosismo linguistico come mezzo per essere ed esaltare se stessi, in virtù del quale D’Annunzio fu probabilmente il primo intellettuale italiano a esistere anche al di fuori delle proprie opere, a creare uno stile di vita che fosse esso stesso arte.
Coerentemente con la sua posizione d’interventista, si ricordò di osare anche a cinquantadue anni, e si arruolò volontario nella Grande Guerra. Ottenuta dal Comando Supremo una speciale patente che lo autorizzava a compiere qualsiasi impresa “di terra, di cielo e di mare”, ne fece l’uso più ampio possibile, dal cielo di Vienna alla baia di Buccari.
Per non lasciare le sue buone abitudini di dandy, scelse come suo Quartier Generale la Casetta Rossa a Venezia, già studio di Anonio Canova, situata davanti al Palazzo Venier dei Leoni, ed ebbe per amante la contessa Morosini, già intima del Kaiser Guglielmo I. Ma questo non gli impedì di essere presente in prima linea; bombardò navi austriache a Pola, ne silurò altre a Buccari, lanciò manifesti di propaganda su Vienna.
Si osa in guerra, così come si osa nella vita: non gli si può disconoscere, per dirla con Manzoni, una cert’aria di braveria, intesa come la vocazione a imprese audaci, non sempre ortodosse, e a mettere alla prova il proprio coraggio, sfidando il pericolo con il ghigno sprezzante del Superuomo. Fu un intellettuale – ma soprattutto un uomo -, fiero di essere italiano, che mal sopportava le meschinerie di una classe politica miope e timorosa, e che, in nome di un glorioso passato e della necessità di adeguarsi al nuovo assetto europeo, sognava un’Italia libera e fiera.
La sua grande Utopia (quasi tutti gli spiriti eccelsi ne coltivarono una) fu l’Impresa di Fiume, nella quale le questioni politiche e patriottiche si fondevano con quelle sociali. A Fiume italiana (occupata con un colpo di mano dopo il rifiuto di assegnarla all’Italia con i trattati di Versailles), D’Annunzio lavorò al progetto di una società basata sull’estetica civile, un curioso ma affascinante mélange di Platone, Wilde, Nietzsche.
L’onore militare fu quasi un pretesto per costruire un libertarismo precursore dei tempi, vicino all’esperienza tedesca dei Wandervögel cui si affiancava una decadente raffinatezza. A Fiume d’Italia si praticava il nudismo e l’amore omosessuale, era ammesso il divorzio, si faceva uso di stupefacenti.
Fra ottuagenari veterani garibaldini, nobildonne, prostitute, avventurieri, militari e intellettuali (anche un giovanissimo Giovanni Comisso), cadono i tabù e si teorizza la società moderna; in quella Fiume controversa nacquero quei costumi libertari che avrebbero segnato il secondo Novecento sulla scia del Sessantotto. Una vicenda che dimostra come D’Annunzio capisse le istanze del suo tempo e cercasse di trasmetterle all’uomo comune per elevarne lo spirito.
Terminata l’impresa di Fiume con l’amara delusione del “Natale di sangue”, e salito Mussolini al potere nel 1922, cominciò l’autunno di D’Annunzio, che uscì lentamente di scena, anche comunque in considerazione dell’età che avanzava. Ma era altrettanto certo che in quell’Italia non si riconosceva, lo squadrismo fascista e l’ammirazione di Mussolini per Hitler (che definì “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”) erano quanto di più lontano dalla sua idea di società moderna, rigorosa certamente, ma anche improntata alla libertà individuale, di costumi e di pensiero.
Visse pertanto in dignitosa “retroguardia”, poco amato dal Fascismo (che lo mise sotto controllo di polizia per i suoi rapporti con esponenti socialisti) e al quale, ancora con la nostalgia di Fiume, dentro di sé rimproverava la mancata apertura libertaria, base fondante di qualsiasi progresso sociale.
Si può dire che D’Annunzio abbia scritto soprattutto di se stesso, anche se in controfigura, quasi si sentisse investito di una missione civilizzatrice. Sicuramente allargò l’orizzonte di intere generazioni, e se come romanziere oggi appare datato, resta l’attualità di un personaggio che amò decine di donne, dettò le regole dell’abbigliamento, ebbe il senso della coscienza nazionale, e volle sempre essere libero. Per tutte queste ragioni, D’Annunzio può essere fiero di essere stato se stesso.