Ercole e il suo mito è la mostra che ripercorre la storia dell’eroe mitologico attraverso opere d’arte di ogni epoca. Dal 13 settembre al 10 marzo La Reggia di Venaria (Torino) celebra il restauro della Fontana d’Ercole, situata nei giardini della villa, con un’esposizione volta ad indagare le sfumature di un personaggio universale, ma non ancora del tutto conosciuto.
Ciò che rende la figura di Ercole intramontabile sono le sfumature. Le variazioni di una personalità polisemica dovute alla sua natura ambigua, semidio e semiuomo, nato e vissuto sulla linea di confine di chi, più di altri, è volto ad una travagliata ricerca di consapevolezza personale. Nato da una relazione (stranamente) fedifraga tra Zeus e Alcmena, moglie del re di Tebe Anfitrione, rischia la morte fin da neonato. Era, infuriata moglie di Zeus, invia due serpenti per ucciderlo. Nessun problema: afferrati, strangolati e uccisi. Con il crescere dell’eroe crescono anche le imprese che il destino (ma in particolare Era) gli pone sul cammino. Prove temibili, che culmineranno nelle celebri 12 fatiche:
- uccidere l’invulnerabile leone di Nemea e portare la sua pelle come trofeo;
- uccidere l’immortale Idra di Lerna;
- catturare la cerva di Cerinea;
- catturare il cinghiale di Erimanto;
- ripulire in un giorno le stalle di Augia;
- disperdere gli uccelli del lago Stinfalo;
- catturare il toro di Creta;
- rubare le cavalle di Diomede;
- impossessarsi della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni;
- rubare i buoi di Gerione;
- rubare i pomi d’oro del giardino delle Esperidi senza sapere dove andare;
- portare vivo Cerbero, il cane a tre teste guardiano degli Inferi, a Micene.
Sono soprattutto queste ad aver alimentato l’immaginario comune e ad aver trasportato i racconti di Ercole, con le inevitabili modifiche, da un popolo all’altro, da un’epoca all’altra. Dal periodo miceneo (dove si sviluppò) al rinascimento, dall’epoca romana fino ai giorni nostri. Anche il cristianesimo e la chiesa si avvicinarono all’eroe mitologico, sfruttando l’inevitabile analogia con Cristo, dovuta alla duplice natura delle due figure. Ercole e il suo mito raccoglie queste diverse testimonianze artistiche ponendole in ordine a cavallo tra il cronologico e il tematico, attraversandole trasversalmente grazie alla controversa personalità del personaggio.
Già la pittura vascolare attica e italiota racconta di un Ercole impavido, dotato di una forza straordinaria in grado di abbattere il leone di Nemea, e con esso le forze naturali, a sottolineare l’importanza del modello culturale greco; e ancora civilizzatore, quando sconfigge Cicno, il quale uccideva i pellegrini diretti a Delfi. Ma per avere la meglio sui suoi nemici Ercole deve spesso essere crudele e selvaggio. Tanto che questa ferinità diventa parte di lui, ne inquina l’animo e annebbia la ragione.
Capita allora che, vedendosi negato un responso oracolare dalla sacerdotessa Pizia, tenti di impadronirsi con la forza del tripode (strumento oracolare) per ottenere consiglio autonomamente, salvo poi essere fermato da Apollo. Ercole si presenta quindi come un uomo in grado di affrontare i pericoli terrestri con l’audacia di un dio, e come un dio capace di sfidare i giudizi divini con arroganza ed imprudenza umana.
Così in un calco in gesso di un gruppo bronzeo risalente al 310 a.C. l’eroe doma la cerva di Cerinea dopo un inseguimento durato un anno, dando prova di tenacia e astuzia. Un intonaco dipinto del 65-79 a.C. proveniente dall’Augusteum di Ercolano lo raffigura mentre getta il cinghiale di Erimanto nella giara dove si nascondeva impaurito il re Euristeo, che lo aveva precedentemente incaricato di catturare la bestia feroce. Ma poco distante, nella stessa sala, una statuetta in bronzo del II secolo a.C. ritrae Eracle seduto, con la tipica clava appoggiata sulla gamba e una strana vivacità probabilmente dovuta al vino, di cui teneva un bicchiere nella mano sinistra, ora mancante. Questo pone l’attenzione sull’altra vita dell’eroe, quella caratterizzata da piaceri dissoluti ed effimeri, perseguiti anche con la violenza, soprattutto con le donne. Si pensi solamente al numero di figli a lui attribuiti: almeno 78. La maggior parte di questi concepiti al di fuori dalle relazioni con le sue 3 mogli.
L’esposizione alterna saggiamente scultura e pittura, arte decorativa e contenuti multimediali (non manca l’irruzione di Ercole nel mondo del cinema, nei cosiddetti peplum) lasciando al visitatore il piacere di costruire un racconto della vita mitologica di un personaggio completo, spiegando ma senza esaurire le sfumature. La sua immagine va delineandosi gradualmente attraverso le opere di Canova, Pompeo Girolamo Batoni, Giorgio Andreoli, oltre ad altri artisti e ai reperti del passato. Le sue imprese procedono con l’ombra della tentazione e la tentazione di abbandonarsi all’ombra, di perdere il senno e ritrovarsi da paladino a terribile carnefice.
Lo vediamo bene in Ercole saetta i figli, di Antonio Canova. A dare vita al dipinto sono i fantasmi dell’inconscio: quelli di Canova, che fugge da una Roma sconvolta dal sangue e dalla violenza; quelli di Ercole, che annebbiato da Era, uccide la sua intera famiglia scambiando i suoi figli con quelli di Euristide, suo oppositore. La scena trasuda disperazione e ferocia, la quale traspare dagli occhi folli dell’eroe fuori di sé. Ogni suo muscolo è impostato nella tensione di scoccare il dardo. Un servo, i figli tentano inutilmente di fermarlo. Sullo sfondo alcuni cadaveri sono già riversi a terra. Tutto sfuma in un indefinito dolore, il quale si condensa nella figura di Megara, protesa a fermare l’ira del marito, mentre con l’altro braccio regge il cadavere di un bambino. La sua figura è forse la meglio riuscita: Megara piange dagli occhi, piange dai capelli, piange dalle pieghe del vestito, piange con tutta se stessa. Ormai non è altro che lacrime, nel cadere a terra ritto e sottile di ogni di ogni sua parte.
Il grande Ercole. Un personaggio fragile, dopotutto. Sempre sul confine di un eccesso, mai ridotto a vicende comuni, e sempre sul bordo indefinito di ciò che è giusto e sbagliato. Al bivio. Lo rappresenta bene Domenico Beccafumi nel dipinto del XVI secolo Ercole al bivio, dove pone un giovane Ercole al centro di un incrocio determinante, indeciso su quale strada scegliere. A sinistra la Venere celeste (o l’Amor divino) invita l’eroe a scegliere il percorso più tortuoso e difficile, quella che porta ad un prato verde, a delle fresche colline, al Bene. A destra la Venere terrena (o l’Amor profano) seduce ercole con la sua sensualità, accecandolo con un facile brillare che è solo illusione, destinato a sprofondare in un’arida dissolutezza fra rocce prive di speranza.
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