Paolo Canevari è un artista che scuote le menti, stuzzicando la memoria collettiva. Cerca di tramutare l’atto passivo di assimilazione di nozioni in propensione energica a comprendere. Forse è per questo che è diventato uno degli artisti più celebri e importanti della sua generazione.
Nasce a Roma nel 1963 e si indirizza fin da giovane alla carriera artistica, dapprima alla scultura. La sua attività lo porterà a sviluppare linguaggi particolari e medium molto differenti tra loro, anche se la sua cifra personale rimarrà sempre lo pneumatico nero. Scavato e modellato, diviene sovrapposizione di simboli, icone, cultura pop, rappresentazione storica e coscienza politica.
La partecipazione alla 52a Biennale di Venezia, la sua presenza in importanti collezioni private e pubbliche (tra le altre MoMA e Foundation Louis Vuitton pour la Creation) testimoniano il valore del suo lavoro. Che continua oggi nel suo studio di New York e tra le sale della [dip] contemporary art.
Partiamo subito dalla partecipazione con [dip] contemporary art di Michela Negrini a Bangkok Art Biennale. Quale, dove e come sarà il suo intervento-progetto? Come ha potuto ricreare uno spazio-dimensione esperienziale in un tempio immenso come il Temple of the Iron Fence e come si concilia la monumentale arte classica con un tempio thailandese?
Credo sia estremamente importante riuscire a confrontarsi con delle realtà diverse e creare un connubio culturale che possa mettere in discussione certezze acquisite, dogmi e realtà sociali. La Biennale di Bangkok è certamente una situazione stimolante per la sua diversità di vedute che testimonia un’avanguardia artistica contemporanea attiva globalmente.
Il tempio è di per se un luogo sacro e nel suo interno ho creato una stanza bianca, un’ulteriore luogo sacro, una sorta di cappella in cui sono installati tre grandi lavori che somigliano per forma e misura a delle pale d’altare. I tre quadri sono dei monocromi ricoperti completamente in oro, dunque ho usato un minerale e non un colore. L’oro ha un’importanza simbolica in entrambe le culture Buddista e Cristiana. Il concetto dei lavori si basa sull’importanza della simbologia insita nel materiale di per sé iconico e nella forma che diventa contenuto senza il bisogno di immagini o di qualsiasi riferimento interpretativo legato a un concetto di narrativa.
Con questi lavori cerco di arrivare direttamente all’anima delle persone, senza bisogno di spiegazioni attraverso immagini descrittive, creando una lettura metafisica e spirituale dell’opera. Più in generale, può raccontarci qualcosa sulla Biennale thailandese e sul contesto artistico locale (atmosfera, fermento culturale…) La Thailandia è un luogo particolare, riesce a contenere una cultura strettamente tradizionale e sposarla con aspetti tecnologici e materialistici tipici dell’occidente, da questo corto circuito nascono e si sviluppano realtà e personalità artistiche anomale di grande interesse, la Biennale di Bangkok è un’occasione di incontro sotto questo peculiare aspetto.
Lei ha talvolta definito la sua arte “Minimalismo Barocco”. Cosa intende dire con questa apparente contraddizione in termini?
Penso che i due termini anche se apparentemente all’opposto, esprimono una mia poetica in maniera molto puntuale: arrivare cioè al cuore di una miriade di significati universali attraverso un gesto poetico, racchiuso nell’opera. Visivamente, le mie opere sono apparentemente semplice nella loro costruzione ma suggeriscono al fruitore delle declinazioni di significato che rimandano continuamente ulteriori letture. Minimale nella costruzione perché fatta con poco e con un processo elementare, alla portata di tutti come struttura linguistica; ma barocca nella sua profonda ricchezza di interpretazioni. Dunque: Minimalismo Barocco.
Animazione, disegno, video, scultura e installazioni: questi alcuni dei medium da lei utilizzati. Una grande varietà. Ogni supporto veicola un preciso messaggio o sono strumenti diversi del medesimo concetto?
Uso diversi linguaggi perché penso che una delle responsabilità primarie di un’artista sia la ricerca. Diffido degli artisti che trovano una linea espressiva e per tutta la vita ripetono se stessi in una reiterazione di stile. Penso che l’artista sia un pioniere e debba sempre essere alla ricerca di nuove strutture di linguaggio e comunicazione, sperimentando e mettendo in discussione le realtà apparenti suggerite dal sistema di pensiero unico. Cerco di risvegliare la ragione dal torpore indotto dal materialismo; combattendo i pregiudizi e mettendo in condizione di dubbio le certezze acquisite. Faccio questo utilizzando elementi semplici ed universali.
Nonostante il ricorso ad un immaginario comune, i suoi lavori sfuggono da un’interpretazione univoca. È un intento volto a democratizzare il processo artistico senza rinunciare allo stimolo intellettuale?
Si è esattamente questo il mio intento, stimolare un’immaginario individuale attraverso un processo linguistico e dei medium semplici, dunque democratici nella loro struttura. Quando parliamo di arte parliamo di sentimenti, emozioni che vengono assorbite senza il bisogno di un alfabeto conosciuto o un’educazione particolare. L’artista è l’inventore di nuovi linguaggi, e lo fa attraverso la creazione di immagini, siano esse astratte o figurative; contrariamente lo scrittore descrive, racconta attraverso la scrittura immagini e sensazioni e queste rimarranno per sempre le stesse, saranno ferme nella storia e la loro interpretazione sarà sempre la stessa da un punto di vista linguistico. L’artista è libero perché le immagini in arte cambiano attraverso gli anni e i secoli, la loro vita è legata alla diversa interpretazione che il tempo può dargli. Vedo la mia contemporaneità come metastorica.
Le sue opere ammantano spesso di nero i monumenti del passato. Li neutralizzano, per riproporli in un formato iconico contemporaneo. Questa dialettica tra memoria collettiva e collettiva quotidianità come si riconfigura nei suoi lavori superando il loro aspetto retorico?
Cerco di creare una nuova coscienza alternativa all’attuale immaginario troppo condizionato dalla visione globalizzata del mondo e delle cose. Voglio cercare nella poesia dell’arte quello che può aiutare la condizione umana a trovare un’altra dimensione al di là di quella terrena; stimolando così una dimensione trascendente lontana dal materialismo che pervade il nostro tempo. Storicamente viviamo un periodo di esaltazione ed estremismo religiosi che hanno poco a che fare con la vera radice del loro messaggio arcaico. Assistiamo ad una perdita di connessione tra l’uomo e il divino nella quale l’uomo si è reso orfano. Vedo la retorica del linguaggio come un virus che possa mettere in crisi il sistema costituito. Il mio intento è di innescare un meccanismo di pensiero che parte dalla sicurezza assunta attraverso l’uso delle immagini, che fanno parte della nostra memoria collettiva, per arrivare ad una nuova consapevolezza.