The Bar, la recensione del film di Álex De la Iglesia, disponibile sul catalogo Netflix
Le note di Portrait of a Wellman Braud di Duke Ellington accarezzano neoformazioni virali, batteriche e parassitarie, mentre queste prendono forma grazie alla computer grafica: così Álex de la Iglesia introduce fin dai titoli di testa la materia del suo The Bar,piccola perla nera da recuperare nel catalogo Netflix in questo mese gotico che è ottobre.
Titoli di testa seguiti da uno dei lunghi piano sequenza a cui il regista di Bilbao (La Comunidad, Le streghe son tornate e – tra gli altri – Perfectos desconocidos, il remake spagnolo di Perfetti Sconosciuti) ci ha abituati, è così che The Bar presenta i suoi protagonisti: mentre si muovono in una piazza al centro di Madrid, appiattiti in una marcetta quotidiana che li vede sempre al telefono (nonostante la carica sia al termine) a chiacchierare del prossimo appuntamento rimediato su Tinder o a vendere chissà quale strana «merce eccitante».
I nostri sono circondati – come fossero quinte teatrali – da insegne di alimentari cinesi, bancarelle di ortofrutta e vetrine di bar che sembrano lì da prima di Francisco Franco. È proprio all’interno di uno di questi locali che Álex de la Iglesia inscena il suo giuoco delle parti.
All’interno del bar del titolo si ritroveranno tutti i protagonisti, che per il regista di Ballata dell’odio e dell’amore sono tipi da demistificare, da mettere (letteralmente) a nudo, fino alla più meschina e pura dichiarazione di umanità: Elena, la it girl, più candida che superficiale (Blanca Suárez, bellissima), Nacho, l’immancabile hipster al bancone con notebook e cuffie d’ordinanza (Mario Casas), Trini l’incallita giocatrice di videopoker (Carmen Machi, memorabile), Israel il senzatetto allucinato (Jaime Ordóñez, che ha il compito di portare in scena la nota grottesca, cifra stilistica di Álex de la Iglesia), la proprietaria del bar Amparo (Terele Pávez) e Secun de la Rosa nei panni del barista dal cuore d’oro Sàtur; chiudono il saggio umano Sergio, un ex poliziotto e Andréas un mellifluo commesso viaggiatore abbarbicato alla sua valigetta ventiquattr’ore di colore nero. Mentre la piazza si svuota e un cecchino inizia a sparare su chiunque provi a uscire dal bar, i protagonisti dovranno fare i conti con la convivenza forzata cercando di capire cosa sta succedendo. Neanche a dirlo paura, pregiudizio e meschinità faranno precipitare gli eventi verso il delirio – sono sull’orlo di una crisi di nervi! Urlerà Trini – e la violenza.
Álex de la Iglesia gira The Bar attraverso un preciso e vincente gioco di generi: il thriller da minaccia esterna, il cinema virale/epidemico, la suspense (con uno sguardo diretto ad Agatha Christie), ma presto capiamo che il suo obiettivo è un altro: De la Iglesia costruisce un roboante kammerspiel in cui osservare e seguire i personaggi, messi a confronto l’uno con l’altro, con la camera sempre alle calcagna per non mancare nessuna reazione, come un biologo che osserva la crescita e il comportamento dei microrganismi sulla piastra di Petri e poi al microscopio.
Molto presto bisognerà usare la lente del grottesco – altro tratto distintivo del suo cinema – per continuare a raccontare la difficile discesa agli inferi dei protagonisti, fino a un’immersione nei liquami madrileni che richiama direttamente il Dario Argento di Inferno, con quel foro nel pavimento attraverso cui calarsi in un subacqueo e claustrofobico tentativo di salvezza.De La Iglesia avvicina sempre di più il corpo al degrado, gli abiti-costume di tutti i giorni vengono gettati via, il trucco cola sulle guance, i capelli si scarmigliano e le carni si piagano e feriscono ma alla fine del confronto – attraverso dialoghi serrati sapientemente costruiti come fossero una partitura jazz – le uniche cose messe a nudo saranno la corruzione e la meschinità umana.
Tutto ciò fino al finale da servizio fotografico editoriale sulle note di Portrait of a Wellman Braud, questa volta nel riarrangiamento della band madrilena dei Telephunken.
The Bar rimane uno dei più felici esempi di come si possa fare cinema di tensione trascendendo i generi e finendo per raccontare l’umanità nel migliore dei modi.